Infezioni batteriche acute e croniche
L’ampia disponibilità dei trattamenti antibiotici permette di curare la maggior parte delle infezioni, almeno nei distretti corporei dove il raggiungimento del farmaco è più agevole (vie respiratorie, vie urinarie, cute). Il problema della resistenza batterica agli antibiotici è crescente e rilevante, in particolare per alcune forme di infezione. Il ricorso ragionato alla terapia antibiotica, con una scelta mirata delle molecole, è un requisito fondamentale per il successo della singola cura e per l’efficacia delle future terapie antibatteriche.
Il termine infezione definisce una condizione patologica scatenata dall'ingresso in un organo, apparato o sistema circolatorio da parte di agenti patogeni, ossia di microrganismi appartenenti a classi diverse, quali virus, batteri, funghi, protozoi.
Nello specifico, si intende uno stato morboso sostenuto da una o più specie batteriche patogene preponderanti sulla flora microbica residente e normalmente presente.
L’accesso di batteri non implica necessariamente lo sviluppo di una malattia infettiva, giacché attiva una moltitudine di meccanismi fisiologici di difesa capaci, nella maggior parte dei casi, di contrastare efficacemente l’insidia patogena. Anche la gravità della manifestazione infettiva è ampiamente variabile, in funzione del tipo di agente patogeno, dell’organo o apparato interessato, delle condizioni generali del paziente e in particolare dell’efficienza dei propri meccanismi fisiologici di difesa antinfettiva: si va quindi da infezioni banali, che non richiedono terapia, a patologie infettive ben più gravi e disseminate, resistenti a diversi tentativi di antibioticoterapia.
L’isolamento del germe patogeno deve essere sempre correlato con i segni clinici di malattia, perché esistono i portatori sani asintomatici per ognuno delle specie batteriche coinvolte.
La manifestazione clinica dell'infezione non è immediata; affinché ciò avvenga deve infatti trascorrere un certo periodo di tempo necessario al patogeno per svilupparsi e danneggiare i tessuti; questo è il tempo di incubazione.
L’organismo reagisce a un’invasione batterica con tre fondamentali meccanismi di difesa:
- barriere naturali
- risposta immune non specifica
- risposta immune specifica
Le barriere naturali dell’organismo consistono in superfici in grado di opporsi meccanicamente alla penetrazione dei microrganismi patogeni. Lapelle è la prima valida barriera d’accesso agli agenti patogeni; è noto come lesioni cutanee e ustioni rappresentino aree di grande rischio per la contaminazione batterica.
Le mucose sono rivestite da sostanze fisiologiche dotate di proprietà antimicrobiche (muco cervicale, liquido prostatico) nonché immunitarie (immunoglobuline IgG e IgA secretorie). Si aggiungono inoltre altri meccanismi di difesa da ospite estraneo, come il tipico caso delle cilia vibratili dell’epitelio bronchiale, dotato di un movimento sincrono diretto verso l’esterno.
In particolare l’albero respiratorio dispone di numerosi ed efficienti meccanismi di difesa naturale contro l’ospite: i numerosi filtri prima dell’accesso bronchiale (mucosa nasale, saliva), la tosse, il già citato trasporto epiteliale mucociliare. Nel caso gli agenti esterni raggiungano gli alveoli, agiscono in questa sede macrofagi alveolari e istiociti tissutali. È altrettanto noto, per contro, il pernicioso effetto destruente su questi meccanismi operato da inquinanti cronici, fra cui soprattutto il fumo.
Il pH acido dello stomaco e le secrezioni pancreatiche, biliari e intestinali rappresentano altri efficienti meccanismi di protezione del tratto gastroenterico nei confronti di microrganismi esterni, in aggiunta all’azione della peristalsi e di quel particolare fenomeno biocompetitivo operato dalla flora batterica intestinale, normalmente residente e capace di inibire l’attecchimento di altri patogeni estranei.
La risposta immune non specifica implica l’azione di una serie di composti fisiologici, citochine (IL-6, IL-1, tumor necrosis factor alfa, interferone gamma), prodotti principalmente dai macrofagi e da linfociti attivati. Questo meccanismo è immediato e non specifico, e si esplica in particolare con l’aumentata produzione midollare di neutrofili e con il meccanismo della febbre.
Si realizza così una risposta infiammatoria che converge i diversi componenti del sistema immune nella sede dell’infezione, anche attraverso un aumento della vascolarizzazione locale e della permeabilità vascolare, che favorisce il rilascio di peptidi chemiotattici, neutrofili e cellule mononucleari. Fondamentale nella risposta immune non specifica è il ruolo dei macrofagi per il loro ruolo di fagocitosi dei microrganismi.
La risposta immune specifica è legata invece alla produzione di anticorpi specifici capaci di legarsi al preciso target antigenico dell’ospite. Ciò implica ovviamente il precedente contatto con lo stesso agente patogeno e l’induzione della memoria immunologica che si attiva, attraverso gli anticorpi specifici, nella successiva comparsa antigenica. Gli anticorpi, attraverso l’attivazione del sistema complementare, distruggono la parete cellulare dell’ospite batterico.
Infezioni acute e croniche
L’ampia disponibilità dei trattamenti antibiotici permette di curare la maggior parte delle infezioni, almeno nei distretti corporei dove il raggiungimento del farmaco è più agevole (vie respiratorie, vie urinarie, cute). Il problema della resistenza batterica agli antibiotici è crescente e rilevante, in particolare per alcune forme di infezione. Il ricorso ragionato alla terapia antibiotica, con una scelta mirata delle molecole, è un requisito fondamentale per il successo della singola cura e per l’efficacia delle future terapie antibatteriche.
In alcuni casi l’infezione risulta difficile da eradicare, in particolare in distretti difficili o in soggetti con particolare suscettibilità infettivogena. Si parla allora di infezioni croniche, anche se in molti casi si tratta di infezioni ricorrenti, recidivanti, che implicano di volta in volta un approccio terapeutico rapido e capace di eradicare l’infezione.
Tipici esempi di infezioni ricorrenti sono quelle bronchiali (che generano le broncopneumopatie croniche attraverso lesioni anatomiche alle strutture broncoalveolari) o quelle urinarie, in considerazione della facilità batterica a riprodursi nell’ambiente vescicale.
Un discorso a parte meritano gli agenti patogeni atipici, appartenenti a una lista sempre più ampia, dotati di particolare aggressività e di più difficile gestione terapeutica.
Le infezioni respiratorie delle vie aeree superiori
L'apparato respiratorio è il distretto con maggiore incidenza e prevalenza di malattie da infezione per l’evidente ragione del suo facile e ampio accesso ad agenti estranei.
Le rinosinusiti sono rappresentate nella maggior parte dei casi dalle infezioni virali del raffreddore comune, solo raramente contaminate anche da sovrapposizione batterica. Si tratta di malattie a risoluzione spontanea, di regola senza necessità di trattamento antibiotico, con l’eventuale ricorso a trattamenti sintomatici rivolti al controllo della febbre e dell’ipersecrezione.
Le rinosinusiti possono costituire un problema patologico maggiore quando si accompagnano a iperpiressia elevata, durano per oltre dieci giorni, producono secrezioni di aspetto mucopurulento o si associano a una sintomatologia respiratoria bassa importante. Tali condizioni aprono alla ragionevole opportunità di un trattamento antibiotico.
Le bronchiti costituiscono una delle condizioni infettive più comuni e per le quali si ricorre a un consulto medico. Sono caratterizzate da infiammazione dei bronchi in qualsiasi parte del loro tragitto dalla trachea agli alveoli polmonari.
Le infezioni occasionali si definiscono acute: si associano a tosse, spesso espettorato, eventuale rialzo febbrile; durano alcuni giorni e guariscono con terapia antibiotica senza lasciare danni permanenti. Le infezioni acute sono favorite da fattori esterni, soprattutto dalla bassa temperatura e dal fumo.
Ripetuti episodi di bronchite acuta comportano però un danno all’epitelio bronchiale, fino a determinare lesioni anatomiche e danneggiamenti funzionali che possono comporre il quadro più grave della bronchite cronica.
La definizione di bronchite cronica è esattamente definita: si tratta della condizione clinica con tosse ed espettorato persistenti per almeno tre mesi in un anno e per due anni consecutivi. Il danno cronico consiste in una ipertrofia delle ghiandole mucosecernenti situate nella mucosa bronchiale. Se tale danno si estende, porta alla distruzione delle piccole vie aeree, con la confluenza di più alveoli in pochi spazi aerei, e quindi a una condizione di limitato scambio respiratorio (enfisema polmonare).
A sua volta il danno dell’epitelio bronchiale e delle sue cilia di superficie favorisce il ristagno di agenti esterni (particolati ambientali legati all’inquinamento e al fumo), che innescano fenomeni infettivi ricorrenti (episodi acuti su bronchite cronica).
L’eziologia batterica è in assoluto la più comune. Nelle broncopolmoniti extraospedaliere, gli agenti microbiologici più comunemente responsabili sono Streptococcus pneumoniae, Haemophylus influenzaee, Staphylococcus aureus; nelle polmoniti nosocomiali, le Enterobacteriaceae.
La diagnosi di bronchite acuta è di solito clinica, quindi basata sull’obiettività del paziente, che manifesta tosse, febbre, e presenta segni ascoltatori abbastanza tipici sotto forma di rumori umidi, crepitii, eventuali sibili. Il reperto ascoltatorio è comunque molto variabile, può essere anche silente pur in presenza di una infezione rilevante, e dipende dal grado di danno anatomico all’albero bronchiale che si è sviluppato in seguito a pregresse infezioni ricorrenti.
Un esame radiografico è indicato nei casi di sospetta polmonite, oppure nelle condizioni di particolare rischio, per esempio negli anziani. In queste circostanze può essere opportuno anche un esame dell’escreato e un relativo antibiogramma.
La bronchite acuta tende comunque alla autorisoluzione spontanea, favorita da un trattamento di supporto di tipo antinfiammatorio oltre a una adeguata idratazione.
Il confine che divide la necessità o l’inutilità del trattamento antibiotico è spesso sfumato. Da un lato le bronchiti rappresentano una tipica area patologica di abuso di antibiotici; dall’altro, sarebbe deleterio lasciare il focolaio infettivo libero di produrre lesioni irreversibili all’albero bronchiale per la sola ostinazione di evitare il ricorso agli antibiotici.
La decisione a trattare non può sempre basarsi sull’obiettivo riscontro di microrganismi, anzi questa evenienza è molto rara, giacché bisognerebbe ricorrere abitualmente a procedure invasive per il prelievo di campioni di secreto bronchiale potenzialmente contaminato. La terapia antibiotica empirica è quindi la regola – almeno nei casi più comuni di bronchite acuta, quindi la quasi totalità – e si fonda sul buon senso clinico oltre che su una serie di valutazioni obiettive e pratiche.
Nell’ambito della decisione terapeutica, il ricorso empirico all’antibiotico è giustificato nel caso di bronchiti ricorrenti (quindiin un quadro di bronchite cronica o meglio di broncopneumopatia ostruttiva cronica, BPCO), tosse insistente e produttiva, con escreato mucopurulento, o qualora insorga dispnea prima assente o presente in misura minore.
Se la bronchite è un’infiammazione delle vie bronchiali, di solito limitata all’epitelio, la polmonite è un’infezione del parenchima polmonare, quindi unprocesso più profondo e complesso, responsabile di essudazione alveolare, interstiziale e peribronchiale. Si tratta di una malattia grave, tuttora diffusa e gravata da mortalità significative, nonostante l’approccio antibiotico, in particolare in pazienti difficili (anziani, defedati, immunodepressi, ricoverati, gravati da altre patologie importanti).
Qualsiasi patogeno – batterio, virus, parassita, fungo – può essere responsabile di una polmonite, anche se lo Streptococcus pneumoniae è l’agente più comune, soprattutto negli adulti. Peraltro il riconoscimento diagnostico microbiologico è spesso infruttuoso, anche dopo ricerche eziologiche meticolose, così che il ricorso alla terapia empirica è inevitabile.
Pertanto la classificazione abituale delle polmoniti non è di tipo eziologico quanto ambientale, riconoscendo le polmoniti comunitarie (ossia insorte nella normale comunità di vita) e quelle nosocomiali, legate cioè al ricovero ospedaliero. L’identificazione di una specifica categoria nosocomiale rende conto della rilevanza epidemiologica di una complicanza spesso difficilmente prevenibile o controllabile, vale a dire la sovrapposizione di una infezione respiratoria in un paziente ricoverato per altre ragioni.
Un’altra modalità classificativa delle polmoniti – più antica ma sempre pratica per il valore clinico – è quella legata alla localizzazione anatomica e al riscontro radiologico. Si distinguono pertanto
- polmoniti lobari, legate all’interessamento di un intero lobo polmonare per diffusione del processo infettivo per contiguità dagli alveoli alle aree limitrofe, ma senza oltrepassare le sierose
- polmoniti lobulari o broncolobulari, con addensamenti multipli e disseminati, anche in entrambi i polmoni
- polmoniti interstiziali, comun coinvolgimento dei setti connettivali, interlobari e interalveolari.
La diagnostica immunologica ha ampliato le possibilità di individuazione eziologia delle polmoniti, permettendo di individuare tassi anticorpali patologici per diversi agenti fra cui Mycoplasma, Chlamydia, Legionella.Il profilo anticorpale qualitativi distingue l’infezione recente (aumento delle IgM) da una pregressa (aumento delle IgG).
Abituale è l’elevazione dei numerosi parametri infiammatori, peraltro aspecifici: VES, PCR, alga2-globuline, neutrofilia.
L’esame radiologico può mostrare immagini di tipo scolastico (addensamenti lobari franchi), ma più spesso la visualizzazione è sotto forma di addensamenti multipli, a macchia, o a vetro smerigliato (soprattutto nelle forme interstiziali).
Il decorso della malattia dipende soprattutto dalle condizioni generali de paziente, dall’estensione della malattia, dall’agente patogeno e dall’efficacia dell’antibioticoterapia. Fattori prognostici favorevoli includono l’età avanzata, la ricorrenza dell’infezione, la presenza di disventilazione, il coinvolgimento pleurico e la concomitanza con altre malattie importanti.
Le infezioni urinarie
Le infezioni del tratto urinario (UTI) comprendono le cistiti acute (infezioni della vescica, le più comuni) e le pielonefriti acute (infezioni del parenchima renale):
Le donne sono esposte molto più frequentemente al rischio di infezioni urinarie, di cui la più comune è la cistite acuta, per la frequente colonizzazione del vestibolo della vagina da parte di batteri della flora fecale.
Epidemiologia
Le UTI acute e sintomatiche nel tratto urinario nelle donne giovani e sessualmente attive sono un evento frequente: dai dati di una coorte di circa 800 donne è stata stimata un’incidenza di 0,5-0,7 episodi per anno per persona: una storia di UTI, un rapporto sessuale recente e il recente uso di spermicidi costituiscono i principali fattori di rischio.
Nelle donne in età postmenopausale l’incidenza è di circa 10 volte inferiore.
Uno studio di sorveglianza condotto in Portogallo durato dieci anni su circa 155mila campioni di urina di cui 18mila circa positivi per infezione batterica (Linhares, BMC Infectious diseases, 2013) ha evidenziato che circa l’80% dei casi riguarda le donne.
Per quanto riguarda la distribuzione per età, secondo questo stesso lavoro il 40% per cento circa dei casi riguarda pazienti anziani.
Sempre nel sesso femminile, per le e pielonefriti acute, più rare, si stima un’incidenza di 12-13 episodi ogni 10mila persone l’anno.
Manifestazioni cliniche
I sintomi della cistite, che possono presentarsi in modo subdolo nel grande anziano o nel soggetto molto giovane, includono generalmente:
- intensa urgenza a urinare
- minzione frequente con piccola quantità di urina
- dolore e bruciore durante la minzione
- urine torbide o talvolta scure o maleodoranti
- dolore pelvico
- ematuria
Nella pielonefrite, che nella maggior parte dei casi si presenta congiuntamente alla cistite, al quadro descritto dei sintomi si aggiungono:
- febbre (>38°C)
- brividi
- dolorabilità dell’angolo costovertebrale
- nausea/vomito
- insufficienza renale acuta e/o sepsi nelle infezioni complicate.
Generalmente un’infezione del tratto urinario si risolve con un trattamento antibiotico appropriato, ma può evolvere verso forme complicate se il soggetto presenta condizioni che aumentano le probabilità di fallimento delle terapie (tabella).
Si considera UTI complicata un’infezione che determina pielonefrite enfisematosa, ascesso corticomidollare, ascesso perinefrico o necrosi papillare.
Condizioni che aumentano le probabilità di complicanze nelle UTI
- diabete
- gravidanza
- sintomi presenti da più di 7 giorni
- infezione acquisita in ospedale
- insufficienza renale
- ostruzione del tratto orinario
- catetere, stent, nefrostomia, diversione urinaria
- procedure invasive recenti
- anomalie anatomiche o funzionali del tratto urinario
- storia di UTI in età pediatrica
- trapianto renale
- immunosoppressione/immunodeficienza
Diagnosi
La valutazione clinica inizia con l’anamnesi. L’esame obiettivo può rilevare la febbre, la dolorabilità sovrapubica e dell’angolo costovertebrale.
Le analisi di laboratorio includono l’esame delle urine per la ricerca di piuria e nitriti (prodotto metabolico degli enterobatteri) e batteriuria, eventualmente con urinocoltura se ci sono ragioni per sospettare resistenze batteriche. Salvo casi particolari, non è necessario di routine l’imaging.
La diagnosi differenziale viene posta con le altre condizioni, infettive e non, che possono causare disuria, ematuria, dolore sovrapubico, urgenza e frequenza minzionale: vaginiti, uretriti, anomalie strutturali dell’uretra, cistite interstiziale, malattia infiammatoria pelvica, nefrolitiasi.
La persistenza di sintomi significativi dopo 48-72 ore di terapia appropriata suggerisce l’opportunità di ulteriori indagini per verificare l’esistenza di forme complicate:
- urinocoltura per verificare la sensibilità del patogeno agli antibiotici
- imaging: Rx o CT o MRI (ad esclusione della gravida o se la gravidanza non è stata esclusa in una donna in età fertile, e in ogni caso in cui non si ritenga opportuna l’esposizione a radiazioni ionizzanti o al mezzo di contrasto) o, in alternativa, ecografia.
Patogenesi
Le UTI nella donna iniziano generalmente con la colonizzazione del vestibolo della vagina da parte di batteri uropatogeni presenti nella flora fecale.
Nelle pielonefriti la sorgente di infezione più probabile per il rene è l’estensione dell’infezione dalla vescica attraverso gli ureteri, favorita da fattori legati all’ospite o al patogeno stesso. Più raramente la pielonefrite può derivare da batteremia o dalla presenza di batteri nella linfa.
Escherichia coli è l’agente microbico più frequentemente implicato nelle UTI (75-90% dei casi), soprattutto nella donna.
Altri microrganismi responsabili includono altri enterobatteri (Proteusmirabilis, Klebsiella pneumoniae) e stafilococchi quali Staphilococcus saprophyticus, S.aureus e S. epidermidis.
Data la frequenza dell’E. coli come patogeno responsabile, il dato locale di prevalenza delle resistenze agli antimicrobici per questa specie è un parametro rilevante ai fini della scelta del trattamento farmacologico.
Nelle UTI complicate è frequente il riscontro di patogeni resistenti agli antimicrobici comunemente impiegati nel trattamento delle cistiti non complicate.
Trattamento
Cistiti non complicate. Nel trattamento delle cistiti non complicate, a causa della frequenza di questi eventi, la scelta del trattamento antimicrobico tiene conto non solo dell’attività del farmaco sul patogeno responsabile, ma anche dell’impatto ecologico della molecola sulla popolazione batterica, in termini di probabilità di selezionare organismi resistenti e favorire la colonizzazione o l’infezione con organismi multiresistenti.
Quattro molecole sono attualmente raccomandate come trattamenti di prima linea dalle linee guida stilate congiuntamente dalla Infectious diseases Society of America e dalla European Society for Microbiology per le cistiti non complicate nella donna. Le molecole appartengono alle classi dei nitrofurani, diaminopirimidine e sulfamidici (in associazione), derivati dell’acido fosfonico e beta lattamici ad ampio spettro.
Le linee guida (Gupta et al, Clin Infectious Dis, 2011)hanno dettagliato le condizioni di utilizzo raccomandate dei quattro principi attivi oggi considerati come trattamento appropriato in prima linea delle UTI non complicate.
In particolare si precisa che l’associazione diaminopirimidinico-sulfamidico può essere impiegata se sussistono le seguenti condizioni:
- la prevalenza locale delle popolazioni di E. coli resistente all’associazione è ≤ 20%
- il soggetto non è stato trattato con la medesima associazione nei tre mesi precedenti
I fluorochinoloni sono raccomandati quando non è possibile utilizzare questi antibiotici per ragioni attinenti al paziente o per elevata prevalenza locale di resistenze.
Pielonefriti non complicate. La prima scelta è rappresentata dai fluorochinoloni. La soglia considerata accettabile di prevalenza locale delle resistenze batteriche ai fluorochinoloni è pari al 10%.
A seguire le linee guida citano come scelte possibili l’associazione diaminopirimidinico-sulfamidico o beta-lattamici orali ad ampio spettro, con o senza dose iniziale parenterale di un antibiotico long-acting.
Cistiti complicate. Sono raccomandati come prima scelta i fluorochinoloni con trattamenti fino a 14 giorni. Le molecole impiegate usualmente nelle cistiti non complicate sono considerate non appropriate, in quanto le forme complicate sono sostenute solitamente da batteri ad esse resistenti.
I carbapenemi possono essere impiegati se i patogeni producono beta-lattamasi ad ampio spettro.
Pielonefriti complicate. Nel trattamento si impiegano antibiotici ad ampio spettro a somministrazione parenterale. Nei casi di pielonefrite complicata è particolarmente importante instaurare una tailored therapy tenendo conto dei dati di resistenza locale e delle caratteristiche individuali del paziente, specie se immunocompromesso.
In ogni caso, anomalie anatomiche o funzionali sottostanti devono essere valutate e corrette quando possibile.
Bibliografia
- Dante Bassetti: Chemioterapici, antinfettivi e loro impiego razionale. Intramed 2001
- Fontana R. et al.: “Interaction of ceftriaxone with penicillin-binding proteins of Escherichia coli in the presence of human serum albumine.” J AntimicrobChemother, 42, 95–98, 1998.
- Ball P et al: Antibiotic therapy of community respiratory tract infections: strategies for optimal outcomes and minimized resistance emergence. Journal of Antimicrobial Chemotherapy. (2002) 49, 31–40
- Bulloch B. et al.: “The use of antibiotics to prevent serious sequelae in children at risk for occult bacteriemia: a meta-analysis.” AcadEmerg Med, 4, 679–683, 1997.
- Lamb HM, Ormrod D, Scott LJ, Figgitt DP: Ceftriaxone: an update of its use in the management of community acquired and nosocomial infections. Drugs. 2002;62(7):1041-89.
- World Health Organization: Second Meeting of the Subcommittee of the Expert Committee on the Selection and Use of Essential Medicines. Geneva, 29 September to 3 October 2008
- Gupta K, Hooton TM, Naber KG, Wullt B, Colgan R, Miller LG, Moran GJ, Nicolle LE, Raz R, Schaeffer AJ, Soper DE; Infectious Diseases Society of America; European Society for Microbiology and Infectious Diseases. International clinical practice guidelines for the treatment of acute uncomplicated cystitis and pyelonephritis in women: A 2010 update by the Infectious Diseases Society of America and the European Society for Microbiology and Infectious Diseases. ClinInfectDis. 2011 Mar 1;52(5):e103-20. doi: 10.1093/cid/ciq257.
- Hooton TM. Acute cystitis and pyelonephritis.UpToDate, Sept, 25th 2013.http://www.uptodate.com/contents/acute-complicated-cystitis-and-pyelonephritis
- Linhares I, Raposo T, Rodrigues A, Almeida A. Frequency and antimicrobial resistance patterns of bacteria implicated in community urinary tract infections: a ten-year surveillance study (2000-2009). BMC InfectDis. 2013 Jan 18;13:19. doi: 10.1186/1471-2334-13-19.