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      Carcinoma Ovarico

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    1. Patologie
    2. Carcinoma Ovarico
    3. Letti per voi

    Letti per voi: articoli sul carcinoma ovarico

    Approccio chirurgico al carcinoma ovarico epiteliale avanzato

    Incidenza di metastasi linfonodali nel carcinoma ovarico in stadio clinico precoce mucinoso e sieroso mucinoso: studio retrospettivo di coorte.

    FDA raccomanda di non utilizzare test di screening per il carcinoma ovarico

    Specificare la soglia di rischio per la prevenzione del carcinoma ovarico con salpingo-ooforectomia in pre-menopausa: analisi di costo-efficacia

    Gestione non chirurgica del carcinoma ovarico: prevalenza e implicazioni

    Impatto dell’obesità su morbilità e mortalità nei 30 giorni successivi alla chirurgia per il carcinoma ovarico

    Predicting the risk of malignancy in adnexal masses based on the Simple Rules from the International Ovarian Tumor Analysis group

    Sopravvivenza relativa in pazienti con cancro ovarico dal 1975 al 2011

    Strategie di screening per il tumore dell’ovaio: un algoritmo di rischio basato sul monitoraggio del biomarcatore CA-125 raddoppia il numero di tumori identificati rispetto allo screening basato sui valori soglia.

    Terapia ormonale sostitutiva in menopausa: un fattore di rischio?

    Approccio chirurgico al carcinoma ovarico epiteliale avanzato

    Surgery for advanced epithelial ovarian cancer

    Neville F. Hacker, Professor, MD, FRANZCOG, FRCOG, FACOG, FACS, CGO, Archana Rao, Dr, BSc (Med), MBBS (Hons), MMed (Clin Epi), FRANZCOG, CGO

    Best Practice & Research Clinical Obstetrics and Gynaecology 2016 – article in press

    Il carcinoma ovarico è globalmente il settimo per incidenza, con 239.000 nuovi casi stimati nel 2012 di cui 65.000 in Europa. Circa il 70% delle pazienti hanno malattia avanzata alla diagnosi, per la mancanza di test di screening soddisfacenti e di sintomi precoci. Per garantire a queste pazienti le migliori possibilità di sopravvivenza a lungo termine occorre una combinazione di chirurgia citoriduttiva e chemioterapia. La chirurgia citoriduttiva implica una salpingo-ooforectomia bilaterale, tipicamente accompagnata da isterectomia, omentectomia gastrocolica e resezione di quanta più malattia sia possibile. Gli avanzamenti in campo chirurgico e farmacologico hanno esteso negli ultimi 15 anni la sopravvivenza, anche delle pazienti con malattia avanzata.

    Le differenze in sopravvivenza globale tra diversi Paesi sono ampie, anche tra Paesi sviluppati e con sistemi sanitari simili.

     

    PROSPETTIVA STORICA

    Il primo a quantificare i benefici di un approccio chirurgico aggressivo fu Griffith nel 1975, che in una serie retrospettiva di 102 casi osservò una migliore sopravvivenza in quelli che avevano ricevuto una citoriduzione definita “ottimale”, ossia senza una malattia residua >1.5 cm di diametro. Griffith confermò questi risultati prospetticamente su una serie di 26 pazienti consecutive, sostenendo che la sopravvivenza era indipendente dall’ampiezza delle lesioni metastatiche.

    Ulteriori contributi vennero da Hacker e collaboratori, che confermarono l’importanza di avere poca malattia residua, ma dimostrarono che pazienti con noduli residui di diametro non superiore a 5mm avevano una prognosi migliore, confutarono l’affermazione che l’estensione della malattia metastatica alla diagnosi fosse irrilevante e dimostrarono per la prima volta il valore prognostico indipendente della biologia tumorale.

    Nel 1992 Hoskins e collaboratori analizzarono retrospettivamente uno studio randomizzato di due diversi regimi chemioterapici in pazienti con malattia residua ≤ 1 cm, dimostrando che non c’erano differenze negli outcome per le pazienti valutabili, che un elevato carico tumorale metastatico alla diagnosi era un fattore prognostico negativo, e che più elevato era il numero di noduli tumorali residui (carcinomatosi) peggiore era la prognosi.

    Una recente review di 13 articoli su 11.999 pazienti con carcinoma ovarico di grado III e IV ha determinato che la sopravvivenza mediana globale per pazienti prive di malattia residua è di 70 mesi, rispetto a 53 mesi con malattia residua di 1-5mm, 40 mesi con malattia residua di 1-10mm e 30 mesi con malattia residua >10mm (p < 0.001). Ne consegue che sebbene la citoriduzione completa debba essere l’obiettivo della chirurgia esiste un beneficio significativo della citoriduzione “ottimale” (malattia residua <10mm), poiché ad essa si associano 10 mesi di sopravvivenza in più rispetto alle pazienti con citoriduzione subottimale.

     

    INDAGINI PREOPERATORIE

    La maggior parte delle pazienti viene indagata con TC di pelvi e addome e radiografia del tronco, o TC di pelvi, addome e tronco. Recentemente è stato proposto l’utilizzo della PET/TC per determinare la reale estensione della malattia; ulteriori studi saranno necessari per determinare la rilevanza clinica e il rapporto costo/efficacia di questa tecnica nel setting pre-operatorio.

     

    CITORIDUZIONE COMPLETA

    Il primo a prefiggersi di resecare completamente la malattia in pazienti con carcinoma ovarico avanzato fu Eisenkopf, che tra il 1990 e il 1996 operò 163 pazienti consecutive con malattia di stadio IIIC o IV, ottenendo una citoriduzione completa nell’85.3% delle pazienti. La sopravvivenza mediana delle pazienti con citoriduzione completa fu 62.1 mesi, rispetto a 20 mesi nelle pazienti con malattia residua (p = 0.001).

    Il valore prognostico della citoriduzione completa è stato confermato da Du Bois in un’analisi retrospettiva di tre studi condotti su un totale di 3126 pazienti. La sopravvivenza mediana delle pazienti con citoriduzione completa era 99.1 mesi, di quelle con malattia residua di 1-10mm 36.2 mesi e di quelle con malattia residua >10mm 29.6 mesi.

    Harter e collaboratori hanno dimostrato i benefici dell’introduzione di un programma specifico di gestione della qualità nel trattamento del carcinoma ovarico, comprendente la costituzione di team chirurgici dedicati e la restrizione delle operazioni per CO a questi soli team: così facendo il tasso di citoriduzioni complete è aumentato dal 33% al 62%, e la sopravvivenza mediana delle pazienti da 26 a 45 mesi (p = 0.003).

     

    AGGRESSIVITA’ CHIRURGICA

    Un’analisi retrospettiva condotta dalla Mayo Clinic su 194 pazienti consecutive ha mostrato che la sopravvivenza malattia-specifica migliora significativamente nelle pazienti con carcinomatosi che vengono operate dai chirurghi che utilizzano procedure più radicali rispetto a quelli meno aggressivi (sopravvivenza malattia-specifica a 5 anni rispettivamente 44% e 17%, p<0.001).

     

    RUOLO DELLA LINFADENECTOMIA

    Nel loro studio sul valore prognostico della citoriduzione completa DuBois e collaboratori hanno esaminato anche il ruolo della linfadenectomia pelvica e para-aortica, rilevando che nelle pazienti prive di malattia residua la linfadenectomia aumentava la sopravvivenza mediana da 84 a 103 mesi, e il tasso di sopravvivenza a 5 anni dal 59.2 al 67.4%.

    L’unico studio prospettico sul ruolo della linfadenectomia è stato pubblicato da Benedetti-Panici nel 2005: pazienti con noduli intraperitoneali residui < 1 cm erano randomizzate alla linfadenectomia sistematica pelvica e para-aortica o alla resezione dei soli linfonodi ingrossati. Nel braccio con linfadenectomia sistematica si è ottenuto un miglioramento di 6 mesi della PFS (p = 0.02) ma non dell’OS, e si sono osservati un aumento di 90 minuti della durata media degli interventi, del 12% della necessità di trasfusioni, e della incidenza di linfedema degli arti inferiori.

     

    RUOLO DELLA TORACOSCOPIA

    Dopo la prima pubblicazione di Eisenkop, diversi gruppi hanno utilizzato la toracoscopia per valutare estensione e resecabilità della malattia intratoracica prima di esplorare l’addome. Uno studio tedesco ha valutato l’uso della VATS (video-assisted thoracoscopy surgery) per aumentare l’accuratezza della stadiazione FIGO e della valutazione sulla operabilità rispetto al solo imaging. Il tempo mediano dell’operazione era di 46.5 minuti con morbilità trascurabili, e l’esecuzione della VATS ha modificato la gestione terapeutica di 6 pazienti su 17 (35%).

     

    CHIRURGIA CITORIDUTTIVA IN PAZIENTI CON MALATTIA DI STADIO IV

    I dati sulla resezione chirurgica completa della malattia metastatica sono basati su pazienti con carcinoma ovarico di stadio III, mentre i dati sullo stadio IV sono meno chiari, provenendo da studi di casistiche eterogenee e retrospettive. Gli studi tuttavia mostrano un vantaggio in sopravvivenza significativo in caso di malattia residua ottimale pelvica e addominale. 

    Uno studio recente ha valutato l’impatto prognostico della malattia residua dopo citoriduzione intra-addominale in 326 pazienti consecutive trattate a Essen dal 2000 al 2014. La chirurgia citoriduttiva è stata eseguita in 286 pazienti (87.7%) con una sopravvivenza mediana di 50 mesi in caso di nessuna malattia residua, 25 mesi per malattia residua di 1-10 mm e 16 mesi per malattia residua >10 mm (p = 0.001).

    Le metastasi sulla parete addominale risultano generalmente da laparoscopia mal condotta, e si sviluppano nei sito del port in pochi giorni. Heitz e colleghi hanno pubblicato la dimostrazione istologica di metastasi sulla parete addominale ai siti di 31 port su 66 esaminati (47%). Le pazienti con oltre 500 ml di ascite hanno un rischio significativamente più alto per questa complicazione (p = 0.01). Ciò non peggiorava la sopravvivenza se le metastasi venivano rimosse, tuttavia si rendevano necessarie escissioni più estese della parete addominale e dopo l’operazione si riportavano più problemi alla ferita e ospedalizzazioni più lunghe (7 giorni in più rispetto alle pazienti senza metastasi della parete addominale).

     

    CHEMIOTERAPIA NEOADIUVANTE

    Nello studio pubblicato da Vergote nel 2010, pazienti con carcinoma ovarico, delle tube o peritoneale primario di stadio IIIC o IV erano state randomizzate a ricevere debulking chirurgico primario seguito da chemioterapia contenente platino o chemioterapia neoadiuvante (NACT) seguita da chirurgia. Una citoriduzione ottimale (malattia residua < 10 mm) è stata ottenuta nel 41.6% delle pazienti trattate con debulking primario e dall’80.6% delle pazienti con NACT seguita da debulking. La sopravvivenza globale mediana è stata rispettivamente di 29 e 30 mesi. Tuttavia se la malattia è chemiosensibile piccoli noduli metastatici possono rimpicciolirsi fino a non risultare visibili, per cui le pazienti che hanno ottenuto una citoriduzione ottimale in assenza di NACT hanno OS e PFS migliori rispetto a quelle che hanno ottenuto questo risultato in seguito alla NACT.

    La sopravvivenza paragonabile e i minori tassi di morbilità e mortalità nelle pazienti trattate con NACT in questo e in altri studi hanno portato alcun a ritenere che la NACT debba essere il trattamento di prima scelta, tuttavia gli studi sono stati criticati per il basso standard degli interventi chirurgici e per il fatto che PFS e OS erano inferiori all’atteso. In uno studio condotto da Chi e collaboratori nello stesso periodo il 90% delle pazienti sono state trattate con chirurgia citoriduttiva primaria, e una malattia residua < 1 cm è stata ottenuta in ben il 71% di queste; PFS e OS erano rispettivamente 17 e 50 mesi (rispetto a 12 e 30 mesi nello studio di Vergote). La conclusione è stata che la citoriduzione primaria deve rimanere il trattamento standard nelle pazienti con CO, e la NACT deve essere riservata alle pazienti non immediatamente operabili. Vergote rispose evidenziando la non comparabilità tra i due studi, che presentavano molte differenze, tra cui il fatto che nello studio di Vergote era presente una quota più elevata di pazienti con malattia in stadio IV.

     

    MORBILITA’ E MORTALITA’ POST-OPERATORIE

    L’analisi pubblicata da Wright sulla morbilità postoperatorie in un database di 28651 pazienti che avevano ricevuto chirurgia citoriduttiva per OC avanzato ha evidenziato che le complicazioni post-chirurgiche (problemi al sito chirurgico, infezioni, trasfusioni, ospedalizzazioni prolungate) aumentavano con l’aumentare dell’età delle pazienti (dal 17.1% nelle donne sotto i 50 anni al 31.5% sopra gli 80, p < 0.0001), e così pure la mortalità (dallo 0.5% nelle donne sotto i 50 anni al 4.1% sopra gli 80, p < 0.0001). Stratificando le pazienti per il numero di procedure chirurgiche radicali ricevute, il numero di complicazioni e la mortalità crescevano all’aumentare del numero di procedure. La conclusione degli autori è stata che la NACT dovrebbe essere presa in considerazione nelle pazienti sopra i 70 anni, soprattutto se è probabile che procedure radicali aggiuntive si rendano necessarie.

    Diversi studi concordano sul beneficio di affidare la chirurgia del carcinoma ovarico a chirurghi di riferimento con alti volumi di interventi.

    Un numero di complicanze postoperatorie superiore a due e un ritardo dell’inizio della chemioterapia a oltre 12 settimane dall’intervento sono legati ad un peggioramento della sopravvivenza.

    Gli autori di uno studio italiano sulle complicanze post-chirurgiche in pazienti la cui citoriduzione primaria ha richiesto chirurgia dell’addome superiore hanno concluso che interventi chirurgici molto estesi andrebbero evitati se non possono condurre ad una citoriduzione ottimale.

    L’obesità rende le procedure chirurgiche più complesse e ha un impatto sulle morbilità.

     

    SELEZIONE DELLE PAZIENTI PER LA CHIRURGIA PRIMARIA

    Selezionare le pazienti da candidare alla chirurgia primaria o alla NACT è una sfida fondamentale per diminuire morbilità e mortalità post-operatorie, massimizzare gli esiti per le pazienti e fornire un’assistenza sanitaria costo-efficace.

    In uno studio condotto da Aletti e collaboratori i fattori predittivi di alti tassi di morbilità a 30 giorni erano albumina sierica ≤ 3.5 g/dl, grado ASA 3 e 4, e complessità dell’intervento, mentre i più forti predittori di mortalità erano l’età avanzata e i gradi ASA 3 e 4.

    In uno studio successivo gli stessi autori hanno identificato un gruppo di pazienti ad alto rischio, le cui caratteristiche erano: elevata disseminazione tumorale iniziale o malattia allo stadio IV, performance status (ASA ≥ 3) o stato nutrizionale (albumina sierica < 3 g/dl) scarsi, età ≥ 75 anni.

    Poiché gli esiti migliori si ottengono nelle pazienti prive di malattia residua dopo la citoriduzione, numerosi studi hanno cercato di determinare come individuare in anticipo queste pazienti. Fagotti e collaboratori hanno riportato una maggiore accuratezza della laparoscopia rispetto a valutazioni clinico-radiologiche per individuare le pazienti adatte alla chirurgia primaria. Sulla base di questi risultati hanno proposto uno score di valutazione che è stato in seguito validato prospetticamente: PIV (predictive index value). Uno studio successivo ha mostrato che in pazienti con PIV ≥ 8 la probabilità di ottenere citoriduzione ottimale (malattia residua ≤ 1 cm) era 0.

    La NACT non migliora gli esiti delle pazienti, dunque secondo molti autori in pazienti adeguate per la chirurgia l’unico fattore a favore di una NACT sarebbe la previsione che il tumore sia platino-resistente, e dunque il ruolo sarebbe di indentificare prima della chirurgia la chemioterapia efficace sulla malattia della paziente.

     

    CONCLUSIONI

    • Per una gestione ottimale, le pazienti con carcinoma ovarico avanzato dovrebbero essere inviate a centri con team multidisciplinari che trattano un elevato volume di casi e comprendono chirurghi, anestesisti, internisti e infermieri esperti nell’assistenza intra- e post-chirurgica.
    • Le opzioni terapeutiche devono essere discusse con le pazienti, che devono esprimere un consenso informato.
    • La NACT non migliora la prognosi ma può diminuire le morbilità post-chirurgiche in pazienti selezionate.
    • L’unica indagine pre-operatoria che secondo gli autori dovrebbe indirizzare alla NACT sarebbe la determinazione della platino-resistenza del carcinoma ovarico.
    • Procedure chirurgiche molto radicali ed estese sono adeguate se conducono ad una citoriduzione ottimale; se questa non può essere raggiunta, si dovrebbe adottare un approccio chirurgico più conservativo.
    • La NACT dovrebbe essere presa in considerazione in caso di malattia allo stadio IV, soprattutto se con vasta effusione pleurica.
    • La toracoscopia potrebbe avere un ruolo in pazienti selezionate per consentire la citoriduzione intratoracica e/o per modificare la citoriduzione addominale se c’è una vasta malattia non resecabile nel torace.
    • In base alle evidenze disponibili, la chirurgia citoriduttiva primaria deve essere considerata lo standard di cura nelle pazienti con carcinoma ovarico avanzato, con uso selezionato della NACT in pazienti ad alto rischio di morbilità post chirurgica, ossia con cattivo performance status, bassi livelli di albumina sierica, comorbilità gravi, soprattutto se anziane e/o obese.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://www.bestpracticeobgyn.com/article/S1521-6934(16)30111-0/abstract

    Incidenza di metastasi linfonodali nel carcinoma ovarico in stadio clinico precoce mucinoso e sieroso mucinoso: studio retrospettivo di coorte.

    Incidence of lymph node metastases in clinical early-stage mucinous and seromucinous ovarian carcinoma: a retrospective cohort study

    JOAM van Baal, KK Van de Vijver, SB Coffelt,, V van der Noort, WJ van Driel, GG Kenter, MR Buist, CAR Lok

    BJOG 2016

    Il carcinoma ovarico mucinoso (MOC) è un raro tumore ovarico (circa 3-5% di tutti i carcinomi ovarici epiteliali) e spesso si presenta come una grossa massa unilaterale, senza malattia metastatica. La prognosi è relativamente buona (90,8% di sopravvivenza libera da malattia a 5 anni). Il carcinoma ovarico sieroso mucinoso, precedentemente classificato come carcinoma mucinoso di tipo endocervicale o mulleriano, è morfologicamente un misto di tipi cellulari sierosi, mucinosi e endometrioidi. Normalmente questa patologia è confinata all’ovaio e la prognosi è relativamente buona.

    Durante la procedura di stadiazione del carcinoma ovarico si eseguono salpingo-ooforectomia bilaterale, isterectomia e omentectomia e si effettuano biopsie peritoneali. Le linee guida olandesi raccomandano il prelievo di almeno 10 linfonodi dalle regioni paraaortiche e pelviche, nonostante in questi tipi di carcinoma le metastasi linfonodali abbiano bassa incidenza. Nel MOC non si conosce la correlazione tra grading tumorale e incidenza di metastasi linfonodali. L’obiettivo dello studio era di valutare la necessità del prelievo linfonodale in pazienti con MOC in stadio precoce di diverso grado.

    Lo studio è stato condotto sui casi di MOC inseriti nel registro olandese di patologia (PALGA) tra gennaio 2002 e dicembre 2012; dal registro sono stati estratti i dati di follow-up per almeno 24 mesi dei casi eleggibili.

    La ricerca condotta nel PALGA ha individuato 1025 pazienti eleggibili per lo studio, di cui 915 con una diagnosi di MOC e 110 di carcinoma sieroso-mucinoso.

     

    CARCINOMA MUCINOSO (MOC)

    La maggior parte dei casi di MOC erano di grado G1 o G2, e il 74.9% di questi erano in stadio FIGO I.

    Le pazienti con MOC G3 avevano frequentemente malattia metastatica al momento della diagnosi (70.5%); sul totale delle pazienti con MOC, 17 (1.9%) avevano metastasi linfonodali. In 9 di queste, le metastasi linfonodali erano state rimosse durante la chirurgia citoriduttiva. Non sono mai state rilevate metastasi linfonodali sovradiaframmatiche.

    Nel corso degli 11 anni di durata dello studio, l’incidenza di MOC tra le donne olandesi è calata.

    Per comprendere se il grading tumorale influenzi la probabilità di avere metastasi linfonodali nelle pazienti con MOC in stadio precoce, lo studio ha analizzato le pazienti su cui era stata condotta stadiazione completa con prelievo di linfonodi: 426 pazienti, di cui 8 avevano metastasi linfonodali. Le pazienti con carcinomi di grado G1 o G2 avevano significativamente meno metastasi linfonodali (G1 versus G3 P = 0.03; G2 versus G3 P = 0.01).

    Delle 8 pazienti con metastasi linfonodali, 5 (62.3%) mostravano una linfoadenopatia rilevabile dalle immagini radiografiche o alla palpazione; tra le pazienti con MOC G1 solo 2 (1.1%) avevano metastasi linfonodali inattese.

    Nelle pazienti con MOC G2 non sono state riscontrate metastasi linfonodali non clinicamente rilevabili. Tra le pazienti con MOC G3 invece il 4.5% aveva metastasi linfonodali non rilevate clinicamente.

    Per valutare se vi fosse correlazione tra grading tumorale e sopravvivenza libera da malattia (DFS) sono state costruite le curve Kaplan-Meier per tutte le pazienti con MOC di stadio FIGO I. La DFS più favorevole è stata osservata nelle pazienti con MOC G1 e G2; la malattia ricorrente è stata diagnosticata nel 6.6% delle pazienti con MOC G1 (dopo una DFS mediana di 27 mesi), nel 9.3% delle pazienti con MOC G2 e nel 34.6% delle pazienti con MOC G3.

    Infine, per valutare se il prelievo dei linfonodi fosse vantaggioso per le pazienti, la DFS delle pazienti in cui il prelievo era stato effettuato è stata paragonata a quella delle pazienti sottoposte a procedure di stadiazione incomplete. Le DFS delle pazienti risultavano paragonabili all’interno di ciascun grado tumorale. Questo dato nei MOC G1 e G2 era atteso vista la bassa incidenza di metastasi linfonodali che si osservano in questi carcinomi. Sebbene il numero di pazienti con MOC G3 sottoposte a stadiazione fosse basso, anche per queste non si è osservato un beneficio significativo in DFS nelle pazienti a cui erano stati prelevati i linfonodi (p = 0.29).

    Nel loro insieme, questi dati dimostrano che eseguire il prelievo dei linfonodi in assenza di evidenza clinica di metastasi non migliora la DFS.

     

    CARCINOMA SIEROSO MUCINOSO

    Durante il periodo dello studio il carcinoma ovarico sieroso mucinoso è stato diagnosticato a 110 pazienti, con incidenza stabile nel tempo. La maggior parte delle pazienti (39.1%) avevano carcinomi G1. All’interno dell’intera coorte solo 5 pazienti, di cui nessuna con malattia G1, avevano metastasi linfonodali (4.5%). In 3 (60%) delle pazienti con linfoadenopatia sono state rilevate metastasi linfonodali ascellari o sovraclavicolari, mai osservate nelle pazienti con MOC.

    Il prelievo dei linfonodi per la stadiazione era stato eseguito in 46 pazienti su 110, ma non ha permesso di evidenziare nessuna nuova metastasi linfonodale. Tuttavia il numero di pazienti con carcinoma sieroso mucinoso a cui sono stati prelevati i linfonodi per la stadiazione in questo studio è troppo basso per poterne ricavare delle conclusioni.

     

    CONCLUSIONI

    Lo studio ha dimostrato che nel MOC G1 e G2 in stadio precoce le metastasi linfonodali sono rare, e sono state rilevate solo nello 0.7% di pazienti che non ne avessero evidenza clinica (ingrossamento dei linfonodi rilevabile dalle immagini radiografiche o alla palpazione). Non si è osservato un beneficio in DFS associato al prelievo dei linfonodi in queste pazienti. Lo studio ha mostrato una più alta incidenza di metastasi linfonodali rilevate attraverso lo staging nelle pazienti con MOC G3, che appaiono avere una malattia più progressiva, dunque MOC di diverso grado non dovrebbero essere considerati come un’unica malattia.

    Per quanto riguarda i carcinomi sierosi mucinosi, finora sono stati pubblicati pochi studi, condotti su coorti di pazienti poco numerose; questo è il primo studio su un ampio gruppo di 110 pazienti. In queste pazienti le metastasi linfonodali erano più frequenti che nei MOC, ma non sono state osservate nei carcinomi G1. Inoltre il 60% delle pazienti con metastasi linfonodali mostrava coinvolgimento extra-addominale, che suggerisce per i carcinomi sierosi mucinosi G2 e G3 un pattern di metastatizzazione simile a quello dei carcinomi sierosi di alto grado.

    In queste pazienti non sono state trovate metastasi linfonodali attraverso il prelievo di linfonodi, tuttavia il numero di pazienti a cui i linfonodi erano stati prelevati è troppo esiguo per poter trarre conclusioni.

    Sebbene non esista un sistema ottimale di grading del MOC, i risultati dello studio indicano che un sistema binario può rappresentare le differenze prognostiche tra carcinomi a basso e alto grado. Il prelievo dei linfonodi può essere omesso nel MOC in stadio precoce a basso grado, mentre i benefici del prelievo nel MOC in stadio precoce ad alto grado sono incerti. Omettere il prelievo dei linfonodi può avere effetti positivi sulle complicanze legate alla chirurgia, sulle perdite ematiche e sulla durata degli interventi.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/1471-0528.14425/abstract;jsessionid=E7EE08FEB0533EABE3A39575DBD2ACAB.f02t02?systemMessage=Wiley+Online+Library+will+be+unavailable+on+Saturday+17th+December+2016+at+09%3A00+GMT%2F+04%3A00+EST%2F+17%3A00+SGT+for+4hrs+due+to+essential+maintenance.Apologies+for+the+inconvenience

    FDA raccomanda di non utilizzare test di screening per il carcinoma ovarico

    The FDA recommends against using screening tests for ovarian cancer screening: FDA Safety Communication

    http://www.fda.gov/MedicalDevices/Safety/AlertsandNotices/ucm519413.htm

    Lo scorso 7 settembre 2016 la Food and Drug Administration (FDA) ha raccomandato, in una comunicazione ufficiale di safety, di non utilizzare i test commercializzati come test di screening per il carcinoma dell’ovaio.

    La raccomandazione dell’FDA è motivata principalmente dalla preoccupazione che l’utilizzo di tecniche non idonee possa ritardare l’adozione di misure preventive efficaci nelle donne che sono ad alto rischio di sviluppare la patologia.

    Negli Stati Uniti il carcinoma ovarico è la quinta causa di morte da cancro nella popolazione femminile, e il National Cancer Institute stima che nel 2016 ne verranno diagnosticati oltre 22.000 nuovi casi.

    Le categorie maggiormente a rischio sono le donne con mutazioni nei geni BRCA1 o BRCA2, quelle che hanno una storia familiare di carcinoma ovarico e quelle che hanno raggiunto la menopausa.

    Sulla patologia sono stati condotti ampi programmi di ricerca e pubblicati numerosi studi, tuttavia non sono ancora stati prodotti test di screening che abbiano sufficienti sensibilità e specificità per evidenziare la presenza di un carcinoma ovarico senza un elevato numero di risultati inesatti. Nonostante questa insufficiente accuratezza diagnostica, tuttavia, numerosi test sono stati messi in commercio.

    FDA si dichiara preoccupata che le pazienti e i loro medici curanti possano essere ingannati dalle “promesse” di questi test, con tutti i danni che ne possono conseguire: in caso di un risultato falsamente positivo, ulteriori test clinici e/o interventi chirurgici non necessari, con i relativi costi e rischi di complicanze; e in caso di falsi negativi, il ritardo nell’accesso ai necessari trattamenti per il carcinoma ovarico.

     

    “The FDA believes that women at high risk for developing ovarian cancer should not use any currently offered test that claims to screen for ovarian cancer.”

     

    Un eventuale test per lo screening del carcinoma ovarico dovrebbe necessariamente tener conto del modo in cui questa patologia progredisce, ossia senza forme pre-cancerose che possano essere attualmente identificate senza effettuare una esplorazione chirurgica invasiva e, di solito, diffondendosi nella cavità addominale prima di essere diagnosticata

    Le uniche pratiche di screening attualmente validate, ed utilizzate con successo, sono quelle per la ricerca di tumori della mammella, della cervice uterina e del colon-retto.

    Raccomandazioni FDA:

    Per le pazienti
    • Essere coscienti che non esistono test affidabili per lo screening del carcinoma ovarico
    • Non basare decisioni relative alla propria salute sui risultati di questi test
    • Discutere con il medico curante sulle corrette modalità di riduzione del rischio di sviluppare un carcinoma ovarico, soprattutto in presenza di mutazioni BRCA1 o BRCA2 o di una storia familiare di questa  patologia.
    Per i medici
    • Non raccomandare l’utilizzo di test per lo screening del carcinoma ovarico
    • Valutare di inviare le pazienti ad alto rischio di carcinoma ovarico, soprattutto se portatrici di mutazioni BRCA, alla consulenza genetica o ad un oncologo specializzato in neoplasie ginecologiche.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://www.fda.gov/MedicalDevices/Safety/AlertsandNotices/ucm519413.htm

    Specificare la soglia di rischio per la prevenzione del carcinoma ovarico con salpingo-ooforectomia in pre-menopausa: analisi di costo-efficacia.

    Specifying the ovarian cancer risk threshold of ‘premenopausal risk-reducing salpingooophorectomy’

    for ovarian cancer prevention: a cost-effectiveness analysis

    Ranjit Manchanda, Rosa Legood, Antonis C Antoniou, Vladimir S Gordeev, Usha Menon

    J Med Genet. 2016 Sep;53(9):591-9

    Il carcinoma ovarico (OC, Ovarian Cancer) è la principale causa di morte da tumore ginecologico, con 152.000 decessi nel mondo ogni anno. La salpingo-ooforectomia (RRSO, Risk-Reducing Salpingo Oophorectomy) è l’intervento più efficace per ridurre il rischio di sviluppare un carcinoma ovarico. L’efficacia di questa procedura preventiva assume particolare importanza alla luce della mancanza di procedure di screening validate per questa patologia. All’effettuazione della RRSO è associato un Hazard Ratio (HR) per l’OC di 0.21 (IC 0.12-0.39) per le portatrici di mutazioni BRCA1/2, e di 0.06 (IC 0.02- 0.17) per le donne a rischio inferiore.

    Nel Regno Unito la RRSO è disponibile per le donne che hanno un rischio >10% di sviluppare un carcinoma ovarico nel corso della loro vita, per le quali questa procedura è ritenuta costo-efficace; il rapporto costo-efficacia in donne in pre-menopausa con un rischio inferiore a quello delle portatrici di mutazioni BRCA1/2 ma più elevato rispetto alla popolazione generale, tuttavia, non è stato formalmente testato.

    Il rischio nelle parenti di primo grado di pazienti con OC è triplicato; recentemente sono stati identificati nuovi geni di rischio intermedio/moderato; inoltre, studi di associazione genome-wide hanno portato alla scoperta di 17 varianti geniche che modificano il rischio di sviluppare OC.

    L’obiettivo dello studio è di verificare quale sia la soglia di rischio di sviluppare OC per cui la RRSO è costo-efficace. Lo studio si avvale di dati verificati e pubblicati, per illustrare un modello di analisi decisionale che confronta le strategie “RRSO” e “non RRSO” in donne in premenopausa con livello di rischio per l’OC compreso tra 2 e 10%.

    METODO

    Valutazione di costo ed efficacia di RSSO vs no-RSSO in donne di 40 anni in pre-menopausa con livello di rischio OC 2-10% nel contesto del sistema sanitario UK (NHS – National Health Service).

    Il modello di analisi decisionale è stato programmato, e i calcoli sono stati effettuati per diversi livelli di rischio (2-4-5-6-8-10%).

    Il modello non include un beneficio dello screening, ad oggi non dimostrato per l’OC.

    Dopo un intervento di RSSO effettuato in pre-menopausa si raccomanda alle pazienti di assumere terapia ormonale sostitutiva (HRT, Hormone Replacement Therapy) fino all’età mediana della menopausa, 51 anni. Nel modello si è assunta una aderenza alla HRT dell’80%.

    I punti del modello in cui si prende una decisione sono definiti snodi decisionali. Le linee che si dipartono dagli snodi sono definite rami decisionali. Ciascun ramo identifica decorsi/outcome mutuamente esclusivi rispetto a quelli degli altri rami.

    Ad ogni decisione è attribuito un livello di probabilità in base al quale sono calcolati gli outcome. I costi per la determinazione del livello di rischio non sono inclusi nel modello. I possibili outcome includono OC, carcinoma mammario (BC, Breast Cancer, il cui valore basale di rischio in base a studi clinici è 12.9%) e coronaropatia.

    MODELLO DI STRUTTURA DECISIONALE

    Le probabilità assegnate a ciascun percorso del modello sono elencate nella tabella seguente; la probabilità di sviluppare contemporaneamente OC e BC è bassa e nel modello è stata considerata pari a zero. Si calcola che non assumere HRT non modifichi il livello di rischio per BC. I dati di riduzione del livello di rischio di OC, BC e coronaropatia derivano dal Nurses Health Study. La stima dell’incidenza di carcinomi di ciascun percorso decisionale deriva dalla somma dei rischi di tutti i rami che lo compongono. 

    I costi inseriti nel modello sono quelli del NHS (prezzi del 2012); su indicazione del NICE (National Institute for Health and Care Excellence) non sono stati inclusi nel modello i costi sanitari successivi e non correlati a OC/BC.

    L’orizzonte temporale dello studio copre il rischio nell’arco della vita e le conseguenze a lungo termine. I dati comparativi, relativi all’aspettativa di vita delle donne che non sviluppano OC/BC, sono ottenuti da tabelle dell’Office of National Statistics. Età mediana di insorgenza di OC/BC, rispettivamente, 68/60 anni (dati Cancer Research UK). I modelli di outcome per OC e BC sono basati sulle stime di sopravvivenza a 10 anni; le probabilità di morte dopo 10 anni di sopravvivenza sono considerate uguali a quelle della popolazione generale.

    Il QALY (Quality Adjusted Life Year) è considerato dal NICE la misura più appropriata del beneficio in sanità, poiché riflette sia la mortalità che la qualità di vita associata allo stato di salute; il QALY esprime le variazioni dell’aspettativa di vita, corrette per la variazione di qualità di vita correlata alla salute. Questo presuppone di avere informazioni sugli “utility weights”: il “peso” di ogni outcome può andare da 0 (decesso) a 1 (perfetta salute), e riflette l’aggiustamento della sopravvivenza in base alla qualità di vita. Pertanto,

    QALY = (sopravvivenza in anni) x (utility weight).

    Gli utility weight (o “utility score”) sono calcolati in base alle preferenze espresse dai pazienti in modo diretto o indiretto (utilizzando questionari e scale di valutazione).

    L’utility weight associato alla RRSO è 0.95; per il 70% di pazienti che presentano un OC avanzato già alla diagnosi, l’utility score è 0.55. L’utility score per OC in stadio precoce è 0.81, mentre quello delle donne con OC in fase terminale (ultimo anno di vita) è 0.16. L’utility score per le donne che hanno una recidiva di OC è 0.55, quello per le pazienti in remissione è 0.83.

    Gli utility weight utilizzati per BC sono quelli delle linee guida NICE.

    I valori per ogni percorso del modello sono stati pesati per la probabilità di trovarsi in quel percorso, per calcolare i costi totali e gli effetti del modello in anni di vita e in QALY.

    L’ICER (incremental cost effectiveness ratio) è calcolato dividendo la differenza tra i costi per la differenza tra gli effetti, dunque in questo studio

    ICER = (costo di RRSO – costo di no-RRSO) / (effetto di RRSO – effetto di no-RRSO).

    L’ICER così ottenuto è stato confrontato con le soglie standard di costo-efficacia (20.000-30.000 £ per QALY guadagnato) raccomandate dal NICE. Questi calcoli sono stati usati per determinare se effettuare una RRSO in premenopausa sia costo-efficace rispetto a no-RRSO, per ciascuna soglia di rischio di OC.

    Un’approfondita analisi di sensibilità ha permesso di escludere incertezze nei risultati e di verificare la robustezza del modello.

    RISULTATI

    In base al modello la costo-efficacia aumenta all’aumentare della soglia di rischio. I benefici sono in larga parte dovuti ai significativi vantaggi ottenuti in riduzione di BC e al tasso di aderenza alla HRT. Gli outcome del modello non sono particolarmente impattati da probabilità di rischi vari, costi per la prevenzione chirurgica o per il trattamento di OC/BC o malattie cardiovascolari. I risultati tuttavia sono sensibili agli utility weight della RRSO. I risultati sono sensibili anche al tasso di aderenza alla HRT.

    Il modello suggerisce che la RRSO sarebbe estremamente costo-efficace in donne di 40 anni in pre-menopausa con un rischio di OC nell’arco della vita del 4% ad una soglia di 20.000-30.000 £ per QALY guadagnato. Questi risultati sono particolarmente significativi per la pratica clinica a fronte della continua riduzione dei costi per i test genetici e del miglioramento della precisione nel calcolo del rischio di OC individuale. In assenza in un programma di screening efficace per l’OC, questi risultati supportano una strategia di prevenzione chirurgica per donne a rischio definito non alto (inferiore al 10%). Questo approccio può consentire di diminuire il numero di casi di OC e quindi il carico di malattia nella popolazione.

    Uno dei fattori principali della costo-efficacia della RRSO in pre-menopausa è la riduzione del rischio di BC. Se il rischio di BC non fosse diminuito dalla RRSO, questa diventerebbe costo-efficace dalla soglia di rischio del 7%.

    La HRT è necessaria per minimizzare la differenza in qualità di vita rispetto alle donne in pre-menopausa che non subiscono RRSO. Tuttavia anche le donne che assumono HRT sperimentano delle differenze, soprattutto nella sfera sessuale. Queste variazioni devono essere discusse con la paziente all’interno del consenso informato, e incorporate nel processo decisionale della RRSO.

    La RRSO è raccomandata a un’età >35 anni per le portatrici di mutazioni BRCS1/2, ma l’età mediana di insorgenza di OC nelle pazienti con altre varianti geniche che aumentano il rischio è più elevata, quindi in queste pazienti la RRSO può essere effettuata dopo i 40 anni di età.

    I risultati dello studio indicano che la RRSO sarebbe costo-efficace anche in donne con mutazioni in geni che conferiscono rischio moderato, come RAD51C, RAD51D, BRIP1, e in donne con famiglie ad alto rischio negative per BRCA1/BRCA2, o con parenti di primo grado affette da OC. Si è osservato che circa il 75% del rischio familiare di OC non è legato a mutazioni BRCA1/BRCA2. La sempre maggior precisione con cui si è in grado di calcolare il rischio individuale di sviluppare OC potrà avere un sempre maggior peso nelle strategie di prevenzione.

    L’implementazione di questo approccio richiede una diffusione delle informazioni sia alla classe medica che alla popolazione generale attraverso un ampio programma di disseminazione culturale, che a sua volta ha dei costi.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://jmg.bmj.com/content/early/2016/06/06/jmedgenet-2016-103800.abstract

    Gestione non chirurgica del carcinoma ovarico: prevalenza e implicazioni.

    Non-surgical management of ovarian cancer: Prevalence and implications

    David I. Shalowitz, Andrew J. Epstein, Emily M. Ko, Robert L. Giuntoli II

    Gynecol Oncol. 2016 Jul;142(1):30-7

    Lo standard terapeutico per il carcinoma ovarico include Il trattamento chirurgico, sia come primo atto terapeutico che come citoriduzione d’intervallo, con le sole eccezioni delle pazienti non eleggibili alla chirurgia o con malattia non resecabile.

    Alcuni studi basati su analisi di database hanno messo in evidenza che le pazienti trattate in modo non aderente alle linee guida sono il 33-56% dei casi, e in generale non è noto se queste deviazioni siano giustificate da fattori relativi alla paziente e/o alla malattia.

    Questo studio si è focalizzato su un sottogruppo di pazienti trattate in modo non aderente alle linee guida, ossia coloro che non hanno mai ricevuto un intervento chirurgico per il carcinoma ovarico, con conseguente peggioramento della prognosi.

    Lo studio, condotto negli Stati Uniti, ha utilizzato il National Cancer Database per analizzare la prevalenza delle pazienti non trattate chirurgicamente, le correlazioni tra la “non-chirurgia” e le condizioni cliniche e demografiche delle pazienti, e le implicazioni del trattamento non chirurgico sulla sopravvivenza.

    Il National Cancer Database (NCDB) è sponsorizzato dall’American College of Surgeons (ACS) e dalla American Cancer Society, e riceve i dati di circa il 70% dei pazienti con una nuova diagnosi di cancro negli Stati Uniti. Da questo database sono stati estratti i casi di carcinoma epiteliale ovarico diagnosticati tra il 2003 e il 2011; per ogni caso si sono valutati l’effettuazione o meno di un trattamento chirurgico, le motivazioni per non aver eseguito un trattamento chirurgico e la sopravvivenza della paziente.

    Per l’analisi sull’effettuazione del trattamento chirurgico erano disponibili i dati di 210.667 pazienti, mentre i dati sulla sopravvivenza erano noti per 195.155 casi. Per questa analisi le pazienti sono state raggruppate in tre categorie: quelle che avevano subito un intervento chirurgico, quelle che avevano ricevuto solo trattamenti non chirurgici (radioterapia, terapia ormonale, chemioterapia), e quelle che non avevano ricevuto nessun trattamento. L’analisi covariata ha preso in considerazione dati relativi alle pazienti, alla struttura in cui sono state trattate e all’area geografica.

    Fra le 210.667 pazienti incluse nell’analisi sul trattamento chirurgico, il 20% aveva una malattia allo stadio I, il 7.8% allo stadio II, il 38% allo stadio III e il 24% allo stadio IV, mentre per il 10% lo stadio di malattia era ignoto. In totale l’82% delle pazienti (172.687) ha ricevuto un trattamento chirurgico.

    Fra le 37.980 pazienti non trattate chirurgicamente, il 10% aveva controindicazioni alla chirurgia per comorbidità, il 6.2% ha scelto di non sottoporsi all’intervento, l’1.4% è deceduto prima dell’intervento; nel 2.8% dei casi la chirurgia è stata raccomandata ma non eseguita per motivi ignoti e nel 79.6% dei casi non è stata raccomandata, per motivi non specificati.

    Tra le pazienti con malattia allo stadio III/IV, l’84% ha ricevuto un trattamento sia chirurgico che sistemico, il 12.2% solo chemioterapia e l’8.7% nessun trattamento.

    All’analisi della regressione logistica multivariata è risultato che i fattori maggiormente associati alla probabilità di non ricevere un trattamento chirurgico erano l’età avanzata, lo stadio di malattia e le comorbidità.

    Risulta inoltre che le pazienti avevano maggiore probabilità di ricevere un trattamento chirurgico se in possesso di una polizza sanitaria privata o se trattate presso un centro specialistico (accreditato dalla Commission on Cancer - CoC), mentre non vi sono significative variabilità tra aree geografiche o categorie di centri oncologici.

    Il tipo di trattamento ricevuto influenza la sopravvivenza in tutti gli stadi di malattia: la sopravvivenza globale mediana era infatti di 57.4 mesi per le pazienti trattate chirurgicamente, 11.9 mesi per quelle trattate con la sola chemioterapia e 1.35 mesi per le pazienti non trattate (p<0.001). In confronto al trattamento chirurgico, lo hazard ratio associato al solo trattamento sistemico era 1.9 (p<0.001), e lo HR associato a nessun trattamento era 4.7 (p<0.001). Poiché la maggior parte delle pazienti non trattate chirurgicamente aveva una malattia avanzata, la sopravvivenza è stata analizzata anche nel sottogruppo di pazienti con malattia in stadio III/IV; la sopravvivenza globale mediana per queste pazienti era 37 mesi in caso di trattamento chirurgico (con o senza terapia sistemica), 11.6 mesi per la sola terapia sistemica e 1.2 mesi per nessun trattamento (p<0.001). Risultati simili si sono ottenuti analizzando il sottogruppo delle pazienti più anziane (età > 75 anni).

    In conclusione, circa 1 donna con carcinoma epiteliale ovarico su 5 negli Stati Uniti non accede a un trattamento chirurgico. Queste donne non operate costituiscono una popolazione vulnerabile, ad alto rischio di mortalità. Sarà necessario intraprendere studi approfonditi per comprendere i motivi di questa gestione delle pazienti, non aderente alle linee guida.

    La mancata aderenza alle linee guida non implica necessariamente una gestione inappropriata del caso: vi sono pazienti (ad esempio con malattia molto estesa o gravi comorbidità) che possono vivere più a lungo se non ricevono un trattamento chirurgico, e l’offerta della chirurgia in alcuni casi non si traduce in un beneficio clinico. A seconda di dove vengono operate, le pazienti hanno un rischio compreso tra il 7 e il 64% di ottenere una citoriduzione subottimale, e dunque di non trarre beneficio dalla procedura chirurgica.

    Il vantaggio in sopravvivenza delle pazienti che vengono operate, sebbene attenuato, è presente anche per le pazienti con malattia avanzata e per quelle anziane. Pur tenendo conto dei possibili bias legati ad una analisi retrospettiva, questi dati indicano che una paziente non dovrebbe essere esclusa dal trattamento chirurgico solo in base all’età avanzata o all’estensione della malattia.

    Nonostante il database utilizzato dia qualche idea delle motivazioni per cui le pazienti non sono state avviate alla chirurgia, nella maggior parte dei casi queste rimangono sconosciute. È probabile che in molti casi le pazienti siano state giudicate non resecabili, visto che l’80% delle pazienti non operate era in stadio IV. Purtroppo non ci sono i dati necessari a comprendere se sia stato appropriato negare la chirurgia a queste pazienti.

    È probabile che al NCDB afferiscano dati riguardanti una popolazione trattata secondo la migliore pratica clinica. Si stima che, nell’intervallo di tempo considerato per lo studio, l’NCBD abbia rilevato circa il 75% delle nuove diagnosi di carcinoma ovarico epiteliale; il restante 25% probabilmente è stato trattato in centri a basso volume, il che è di per sé un fattore di rischio di ricevere un trattamento al di fuori dello standard di cura. Questa ipotesi è suffragata dal fatto che in questo studio le pazienti trattate in un centro certificato CoC avevano il doppio di probabilità di essere avviate alla chirurgia rispetto a quelle diagnosticate in un centro CoC ma trattate altrove. È necessario intraprendere studi prospettici condotti in diverse istituzioni per stabilire quante pazienti non vengano avviate alla chirurgia appropriatamente.

    Sebbene alcune pazienti possano essere state correttamente non inviate alla chirurgia, l’associazione del trattamento non chirurgico alla razza afroamericana e nativa americana e alla mancanza di una polizza sanitaria suggerisce che esistano disparità nel garantire l’accesso al trattamento chirurgico. È particolarmente preoccupante notare che il 22.8% delle pazienti anziane con carcinoma ovarico in fase avanzata non riceva alcun tipo di trattamento. I casi delle pazienti non trattate necessitano di una attenta analisi, poiché potrebbero rappresentare “casi sentinella” dell’incapacità di fornire cure appropriate, o l’accesso alle stesse. Infine, l’associazione tra la diminuita probabilità di accedere alla chirurgia e il trattamento in un centro a basso volume di casi suggerisce che l’esperienza maturata nel centro e/o dai medici possa influenzare il tipo di cure erogate.

    La mancanza di un trattamento chirurgico può essere il marcatore dell’esistenza di barriere all’accesso alle cure appropriate in popolazioni ad alto rischio. Queste situazioni meritano studi approfonditi, poiché queste pazienti possono beneficiare fortemente di interventi volti ad eliminare le disparità di accesso alle cure oncologiche.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://www.gynecologiconcology-online.net/article/S0090-8258(16)30158-5/abstract

    Impatto dell’obesità su morbilità e mortalità nei 30 giorni successivi alla chirurgia per il carcinoma ovarico.

    The Impact of Obesity on the 30-day Morbidity and Mortality After Surgery for Ovarian Cancer

    Haider Mahdi, MD, Ahmed A. Alhassani, MD, David Lockhart, BS, Hussain Al-Fatlawi, MD,

    and Andrew Wiechert, MD

    Int J Gynecol Cancer 2016;26: 276Y281

    Negli Stati Uniti l’obesità è fortemente aumentata dal 1985; il tasso di crescita sembra essersi stabilizzato intorno al 2003-2004, ma nonostante la grande attenzione data pubblicamente all’importanza del controllo del peso, nel 2012 circa un terzo dei cittadini adulti era obeso. L’obesità è un noto fattore di rischio per numerosi problemi di salute, tra cui le malattie cardiovascolari, il diabete mellito e l’ictus. Anche i tumori ormono-dipendenti, inclusi il cancro della mammella e dell’endometrio, sono più frequenti nelle donne obese. Recentemente è stato dimostrato che l’obesità (BMI ≥ 30kg/m2) è un fattore di rischio anche per lo sviluppo del carcinoma epiteliale ovarico.

    Numerosi studi hanno indagato l’impatto dell’obesità sugli esiti del carcinoma ovarico, con risultati diversi; sono inoltre controverse le motivazioni che potrebbero determinare un differente outcome per le pazienti obese rispetto a quelle normopeso.

    Questo studio ha esaminato l’impatto dell’obesità sugli esiti della chirurgia in pazienti con carcinoma ovarico, nel periodo perioperatorio. Sono stati utilizzati i dati del database “Surgical Quality Improvement Program (NSQIP)” dell’American College of Surgeons. Si tratta di un programma di raccolta di dati utilizzato dai centri partecipanti per sviluppare iniziative di miglioramento della qualità chirurgica, attraverso il confronto con altri istituti. Il database raccoglie dati su 135 variabili, inclusi fattori di rischio preoperatori, variabili intraoperatorie, e esiti (mortalità e morbilità) nei 30 giorni successivi all’atto chirurgico, per tutti i pazienti sottoposti a grandi interventi.

    I dati relativi alle pazienti con carcinoma ovarico nel periodo 2005-2011, utilizzati per questo studio, provenivano da 258 ospedali pubblici e universitari, rappresentativi dell’intero territorio degli Stati Uniti. Sono state incluse nello studio pazienti che avevano subito interventi di ovarosalpingectomia, citoriduzione, o altre procedure individuate attraverso i codici della “Current Procedural Terminology”. Sono state escluse pazienti che avevano subito un’eviscerazione pelvica.

    Rispetto all’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index) le pazienti sono state suddivise in tre gruppi: non obese (BMI <30 Kg/m2), obese (BMI 30-40 Kg/m2) e patologicamente obese (BMI >40 Kg/m2).

    Gli endpoint primari dello studio erano: mortalità a 30 giorni dall’intervento, morbilità post-operatoria, complicanze correlate alla procedura chirurgica, ritorno alla sala operatoria entro 30 giorni e durata dell’ospedalizzazione. Sono stati creati endpoint compositi per classificare le complicanze post-chirurgiche in gruppi correlati: complicanze chirurgiche, renali, polmonari, settiche, cardiovascolari, e non-chirurgiche. Sono state escluse dallo studio le pazienti con sepsi precedente all’intervento, e sono state escluse dalle rispettive categorie di complicanza le pazienti dipendenti dalla ventilazione, con insufficienza renale o in dialisi da prima della procedura chirurgica.

    Per poterne tenere conto nell’analisi, ai diversi tipi di intervento chirurgico è stato assegnato uno score di complessità: 1 per isterectomia, ovarosalpingectomia, citoriduzione, linfoadenectomia, omentectomia; 2 per resezione dell’intestino tenue o crasso, gastrectomia, epatectomia, splenectomia e pancreasectomia.

    Lo studio ha incluso 2061 donne, di cui 1336 (65%) non obese, 560 (27%) obese, e 165 (8%) patologicamente obese. Le pazienti obese e patologicamente obese avevano maggiore probabilità di presentare diabete, ipertensione con necessità di trattamento farmacologico, morbilità cardiache, classificazione ASA(*) elevata e leucocitosi, ed una minore probabilità di subire un calo ponderale prima dell’intervento. Non si sono osservate differenze significative nella durata degli interventi tra i tre gruppi di pazienti, tuttavia era probabile che le pazienti patologicamente obese subissero interventi chirurgici meno estesi.

    La mortalità a 30 giorni dell’intera coorte di pazienti è stata del 2%. Non si sono rilevate differenze tra le pazienti non obese, obese e patologicamente obese (2.3% vs. 2.1% vs. 1.3%, rispettivamente; P= 0.68). Nel modello di regressione logistica multivariata, dopo l’aggiustamento per i possibili fattori confondenti, né l’obesità né l’obesità patologica sono risultate predittori significativi di un aumento della mortalità post-operatoria a 30 giorni. Predittori di mortalità erano invece l’età, la classe ASA elevata, la perdita di peso prima dell’intervento (10% nei 6 mesi precedenti) e ipoalbuminemia (albumina sierica ≤ 3g/dL).

    Anche il tasso di tutte le complicanze post-operatorie non è risultato significativamente diverso tra i tre gruppi di pazienti (31% nelle non obese, 28% nelle obese, 33% nelle patologicamente obese; p=0.35), così come i diversi tipi di complicanza (chirurgiche, non chirurgiche, e tra queste le complicanze cardiache, respiratorie, renali e settiche). È invece risultato significativamente più elevato nelle pazienti patologicamente obese il rischio di infezione al sito dell’operazione (p<0.001).

    Similmente, la durata dell’ospedalizzazione e l’incidenza di ritorno alla sala operatoria entro 30 giorni non presentavano differenze significative fra i tre gruppi.

    All’analisi multivariata, dopo l’aggiustamento per i fattori di confondimento, obesità e obesità patologica non sono risultate predittive di complicanze post-operatorie. Risultano predittivi di complicanze l’età, la presenza di ascite, la classe ASA elevata, la lunga durata dell’intervento chirurgico, l’ipoalbuminemia (albumina sierica ≤ 3 g/dL), l’anemia preoperatoria e la trombocitosi.

    Il database ACS-NSQIP utilizzato per questo studio riflette un campione di popolazione numeroso, diversificato e proveniente da un elevato numero di istituzioni; il tasso complessivo di obesità nel campione di studio è del 35% (BMI > 30 Kg/m2), che riflette il dato della popolazione statunitense rilevato dai National Institutes of Health. Nel campione di studio si sono rilevati nelle pazienti patologicamente obese (BMI ≥ 40 Kg/m2) aumenti significativi delle comorbilità attese, inclusi ipertensione, diabete mellito, comorbilità cardiache. In base a queste osservazioni è probabile che i risultati dello studio siano validi per la popolazione generale di pazienti con carcinoma ovarico.

    Lo studio mostra che l’obesità di per sé non modifica il rischio di mortalità o morbilità nei 30 giorni dopo un intervento chirurgico per carcinoma ovarico, e conferma altre osservazioni sul ruolo dell’obesità nel carcinoma ovarico: ad esempio era stato precedentemente evidenziato che l’obesità è un fattore di rischio specifico per il carcinoma ovarico pre-menopausa, e questo studio ha rilevato uno spostamento significativo nell’età delle pazienti, con più pazienti patologicamente obese tra quelle diagnosticate sotto i 60 anni.

    Commento

    In uno studio precedente il database NSQIP era stato utilizzato per analizzare gli outcome chirurgici in pazienti con carcinoma dell’endometrio, rilevando una associazione tra l’obesità e alcune morbilità post-operatorie, ad esempio le infezioni della ferita per gli interventi in laparotomia. Si ipotizza che questa situazione non venga riscontrata nelle pazienti con carcinoma ovarico per la più alta incidenza in questo setting terapeutico di interventi chirurgici complessi, il cui alto livello basale di complicanze potrebbe aver diluito l’impatto dell’indice di massa corporea sul decorso post-operatorio.

    I punti di forza di questo studio includono la ampia numerosità e rappresentatività del campione, la capacità di tenere sotto controllo molteplici fattori di confondimento e la affidabilità dei rilevatori di dati del NSQIP nella raccolta degli eventi perioperatori. È la prima volta che i rischi chirurgici a breve termine correlati all’obesità e al carcinoma ovarico vengono valutati su un database rappresentativo dell’intero territorio statunitense, il che rende le conclusioni dello studio altamente generalizzabili. Le debolezze dello studio includono la sua natura retrospettiva, l’impossibilità di correggere i dati in base al volume chirurgico (per istituto e per chirurgo), di conoscere il tasso di citoriduzioni ottimali e distinguere tra chirurgia di citoriduzione primaria e malattia ricorrente.

    Questo studio dimostra che la minore sopravvivenza globale osservata in alcuni studi in pazienti obese con carcinoma ovarico non è dovuta alle complicanze chirurgiche a breve termine. Per assicurare a queste pazienti i migliori outcome a lungo termine è necessario indagare la correlazione tra obesità e somministrazione della chemioterapia, e tra obesità e gestione delle comorbilità.

     

    (*)ASA: Società Americana degli Anestesisti; si utilizza il sistema di classificazione ASA per valutare la fitness del paziente prima dell’intervento chirurgico.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://journals.lww.com/ijgc/Abstract/2016/02000/The_Impact_of_Obesity_on_the_30_day_Morbidity_and.11.aspx

    Predicting the risk of malignancy in adnexal masses based on the Simple Rules from the International Ovarian Tumor Analysis group

    Dirk Timmerman, MD, PhD1; Ben Van Calster, MSc, PhD1; Antonia Testa, MD, PhD; Luca Savelli, MD, PhD; Daniela Fischerova, MD, PhD; Wouter Froyman, MD; Laure Wynants, MSc; Caroline Van Holsbeke, MD, PhD; Elisabeth Epstein, MD, PhD; Dorella Franchi, MD; Jeroen Kaijser, MD, PhD; Artur Czekierdowski, MD, PhD; Stefano Guerriero, MD, PhD; Robert Fruscio, MD, PhD; Francesco P. G. Leone, MD; Alberto Rossi, MD; Chiara Landolfo, MD; Ignace Vergote, MD, PhD; Tom Bourne, MD, PhD; Lil Valentin, MD, PhD

    Introduzione

    La diagnosi precoce in caso di cancro ovarico e il trattamento in centri specializzati sono in grado di aumentare la sopravvivenza delle pazienti. Per questo sono fondamentali i metodi in grado di diagnosticare prima dell’intervento la natura del tumore. Nel 2008 il gruppo International Ovarian Tumor Analysis (IOTA) ha descritto cinque semplici regole sulla base di 5 caratteristiche ecografiche in grado di identificare un tumore benigno (B-caratteristiche) e 5 caratteristiche ecografiche che invece contraddistinguono un tumore maligno (M-caratteristiche). Utilizzando queste regole i tumori sono classificati come benigni (solo caratteristiche B), maligni (solo caratteristiche M) e non classificabili qualora siano presenti caratteristiche miste.  

    Nonostante la semplicità e le eccellenti prestazioni del sistema delle cinque regole, vi sono alcune limitazioni: risultati inconcludenti in una parte di casi e l'assenza di una stima del rischio di malignità. L'obiettivo di questo studio è stato quello di sviluppare e convalidare un modello per calcolare il rischio di malignità basandosi sulle dieci caratteristiche delle Simple Rules riscontrate in sede ecografica. 

    Materiali e metodi

    Lo studio ha coinvolto 22 centri. Le pazienti  dovevano avere  almeno una massa  (alle ovaie o alle tube) che sarebbe andata incontro a intervento chirurgico. Sono state escluse le donne in gravidanza al momento dell’esame, i casi di rifiuto di sottoporsi a un’ecografia transvaginale, il caso di rifiuto a partecipare al progetto e infine i casi con intervento chirurgico fissato a più di 120 giorni dall’esame ecografico. Tutte le pazienti sono state sottoposte a un’ecografia transvaginale standardizzata eseguita da un ginecologo o da un radiologo con ottima esperienza nella diagnostica delle masse annessiali. 

    Per applicare il metodo delle Simple Rules, sono necessarie le seguenti informazioni: i diametri delle lesioni  (millimetri), il diametro della massa solida più grande (millimetri), il tipo di tumore, la presenza di irregolarità della parete, l’ascite, le ombre acustiche, il numero di strutture papillari e la vascolarizzazione studiata con eco-colordoppler. 

    Risultati

    Sono stati analizzati i dati su 4848 pazienti. Il tasso di malignità era del 43% (1402/3263) nei centri  oncologici e del 17% (263/1585) negli altri centri . L'area sotto la curva misurata in corso di convalida dei dati era molto simile tra i centri oncologici (0.917; 95% intervallo di confidenza, 0.901e0.931) e gli altri ospedali (0,916; 95% intervallo di confidenza, 0.873e0.945). Le stime di rischio hanno mostrato una buona calibrazione. Per il 23% dei pazienti appartenenti al gruppo di validazione è stato stimato un bassissimo rischio di tumore maligno (<1%), mentre per il 48% è stato misurato un alto rischio di malignità (30%).

    La caratteristica B1 (cisti uniloculare) è la più predittiva di tumore benigno, mentre le ombre acustiche (B3) sono meno predittive. L’ascite è la caratteristica (M2) in grado di predire di più il tumore maligno, mentre M4 (Tumore multiloculare-solido irregolare con diametro ≥ 100 mm) era quella con minor capacità predittiva.  

    Per i pazienti che, secondo il metodo classico, sono stati classificati come benigni (vale a dire possedevano solo caratteristiche definite B) il rischio di tumore maligno è compreso tra <,01-15,2%; mentre per quelli classificati come maligni (solo caratteristiche chiamate M) il rischio osservato era collocato tra 50.2-> 99,9%. Infine per il gruppo definito come non classificabile nell’approccio originale, il rischio stimato con il nuovo metodo si collocava tra 1,3 e 99,1% , a dimostrazione dell'eterogeneità di questo gruppo. 

    Commento

    Grazie a questo studio è stato sviluppato un metodo per stimare il rischio individuale di malignità in un massa tumorale utilizzando le caratteristiche ecografiche delle Simple Rules stabilite dallo IOTA. Nello studio prospettico di convalida le stime di rischio hanno mostrato una buona capacità di discriminare tra tumori benigni e maligni e si è vista una buona sovrapposizione tra il rischio calcolato e la reale malignità del tumore. 

    Le Simple Rules sono intuitivamente attraenti a causa della loro facilità di utilizzo. Tuttavia, se utilizzate come originariamente suggerito, permettono solo una classificazione dei tumori in 3 gruppi: benigni, maligni, o inconcludenti. In questo studio è stato dimostrato che queste regole possono essere utilizzate anche per stimare il rischio di malignità in ogni massa tumorale, permettendo una gestione personalizzata del paziente. 

    Punti di forza e debolezze dello studio

    La forza di questo studio è data dall’utilizzo di un database di grandi dimensioni in cui le pazienti sono state arruolate prospetticamente con  criteri ben definiti. La prima limitazione invece risiede nel fatto che il modello di calcolo del rischio è stato sviluppato e convalidato esclusivamente su pazienti che hanno subito un intervento chirurgico, in modo da poter utilizzare l’analisi istologica come gold standard. In secondo luogo, tutti gli operatori avevano un’elevata esperienza, e questo fa sì che tali risultati possano non essere applicabili con operatori meno esperti. 

    Conclusioni

    Le stime di rischio possono essere calcolate sulla base delle caratteristiche proposte dalle Simple Rules e ottenute con l’esame ecografico. Questo si spera che possa facilitare la scelta di trattamento ottimale per tutti i pazienti che si presentano con masse annessiali. 

    Sintesi delle combinazioni possibili delle caratteristiche delle Simple Rules e loro associazione con il rischio di malignità (in %) utilizzando tutto il database.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://www.ajog.org/article/S0002-9378(16)00009-0/abstract

    Sopravvivenza relativa in pazienti con cancro ovarico dal 1975 al 2011

    Trends in Relative Survival for Ovarian Cancer From 1975 to 2011

    Jason D. Wright, MD, Ling Chen, MD, MPH, Ana I. Tergas, MD, Sonali Patankar, MD, William M. Burke, MD, June Y. Hou, MD, Alfred I. Neugut, MD, PhD, Cande V. Ananth, PhD, MPH, and Dawn L. Hershman, MD
    Obstet Gynecol 2015;125:1345–52

    Lo studio si proponeva di esaminare la sopravvivenza relativa (una misura che tiene conto delle variazioni della sopravvivenza all’interno di una popolazione) nelle donne con cancro ovarico diagnosticato tra il 1975 e il 2011.

    La sopravvivenza relativa viene stimata attraverso il rapporto tra la sopravvivenza osservata per le pazienti (mortalità da tutte le cause) rispetto ad un gruppo della popolazione generale con caratteristiche paragonabili.

    Durante il periodo oggetto di studio le opzioni di trattamento per le pazienti con cancro ovarico sono aumentate, sia per quanto riguarda la chirurgia che le terapie sistemiche; quantificare correttamente l’incremento di sopravvivenza che ciò ha comportato è complesso, sia perché anche la sopravvivenza della popolazione generale si è nel frattempo allungata, sia perché le cause di morte codificate nei database non sono sempre affidabili.

    Un utile strumento per superare queste difficoltà è la sopravvivenza relativa, che tiene contemporaneamente conto dei cambiamenti avvenuti nella popolazione di interesse e in quella generale.

    I dati utilizzati per lo studio provenivano dal National Cancer Institute’s Surveillance, Epidemiology, and End Results (SEER), un registro di popolazione oncologico che raccoglie tutte le nuove diagnosi di cancro in regioni geograficamente definite degli Stati Uniti. Sono state incluse nell’analisi tutte le donne di etnia caucasica o nera per le quali fosse noto lo stadio di malattia.

    Questi criteri hanno portato all’inclusione nello studio di 49.932 donne, di cui il 23.7% con tumori in stadio I, 6.9% in stadio II, 69.4% in stadio III-IV. I dati di sopravvivenza relativa sono stati calcolati separatamente per questi tre gruppi definiti in base allo stadio di malattia.

    La tabella 2 tratta dall’articolo mostra gli eccessi di rischio di morte (excess hazard ratio o excess HR) per cancro all’ovaio nel 2006, in base allo stadio di malattia e all’anno di diagnosi. Per tutti gli stadi si osserva una riduzione dell’eccesso di mortalità nel tempo.

    Per le donne con cancro ovarico in stadio I, lo excess HR delle pazienti diagnosticate nel 2006 rispetto al 1975 è di 0.51; la riduzione del rischio di morte in eccesso del 2006 rispetto al 1980 e al 1985 rimane significativa, mentre perde di significatività negli anni successivi al 1990.

    Per le donne con malattia in stadio II, la riduzione in eccesso di rischio di morte nel 2006 è significativa rispetto a tutti gli intervalli di tempo considerati, con excess HR variabile dallo 0.57 rispetto al 1975 allo 0.70 rispetto al 2000.

    Allo stesso modo, per le donne con malattia in stadio III-IV la riduzione in eccesso di rischio di morte nel 2006 è significativa rispetto a tutti gli intervalli di tempo considerati, con excess HR variabile dallo 0.49 rispetto al 1975 allo 0.93 rispetto al 2000.

    Clicca qui per ingrandire la tabella

     

    Per tutti gli stadi di malattia, la sopravvivenza relativa diminuisce in funzione dell’età e del tempo dalla diagnosi, in modo più pronunciato per le donne con malattia più avanzata.

    DISCUSSIONE

    I risultati dello studio suggeriscono che la sopravvivenza per le pazienti con cancro ovarico è aumentata nel tempo. Per le donne con malattia in stadio avanzato diagnosticata nel 2006, il rischio di morire per la malattia era del 7% inferiore rispetto a quelle diagnosticate nel 2000 e del 51% inferiore rispetto a quelle diagnosticate nel 1975. La sopravvivenza relativa per il cancro ovarico è aumentata di quasi il 50% per tutti gli stadi di malattia nel periodo esaminato. In questi anni, per gli stadi meno avanzati di malattia sono stati riconosciuti il rischio di diffusione metastatica occulta e l’importanza della stadiazione chirurgica, inoltre è aumentato l’utilizzo della terapia adiuvante; nello stesso periodo, per gli stadi più avanzati di malattia è aumentato l’uso della chirurgia citoriduttiva, sia come trattamento primario che con intento neoadiuvante; inoltre, la terapia adiuvante per il cancro ovarico in stadio avanzato si è evoluta con l’introduzione dei composti del platino e dei taxani, con la somministrazione intraperitoneale e, più recentemente, con regimi di chemioterapia “dose-dense”. Infine, un armamentario di agenti citotossici e biologici è ora disponibile per la terapia della malattia ricorrente.

    Questi miglioramenti tuttavia sono stati ottenuti attraverso un prolungamento della sopravvivenza globale, non attraverso un aumento dei tassi di cura. L’incapacità di aumentare il tasso di cura delle donne con cancro ovarico deriva soprattutto dalla assenza di test di screening adeguati e di strategie di sorveglianza. 

    Nonostante l’aumento di sopravvivenza osservato negli ultimi 35 anni, ulteriori avanzamenti nel trattamento del cancro ovarico sono necessari e richiederanno ulteriori ricerche per migliorare le opzioni terapeutiche disponibili.

    Per ulteriori approfondimenti:

    http://journals.lww.com/greenjournal/pages/articleviewer.aspx?year=2015&issue=06000&article=00013&type=abstract

    Strategie di screening per il tumore dell’ovaio: un algoritmo di rischio basato sul monitoraggio del biomarcatore CA-125 raddoppia il numero di tumori identificati rispetto allo screening basato sui valori soglia.

    Risk Algorithm Using Serial Biomarker Measurements Doubles the Number of Screen-Detected Cancers Compared With a Single-Threshold Rule in the United Kingdom Collaborative Trial of Ovarian Cancer Screening

    Usha Menon et al.

    JCO June 20, 2015   vol. 33  no. 18  2062-2071

    Le strategie di screening per la rilevazione precoce di varie forme tumorali si basano comunemente su valori soglia di specifici biomarcatori. La concentrazione di molti biomarcatori circolanti può però essere alterata anche in presenza di condizioni diverse dal cancro, pertanto è fondamentale stabilire con accuratezza quali siano le soglie di “anormalità” della concentrazione dei biomarcatori rilevanti al fine dello screening.

    Nello studio “United Kingdom Collaborative Trial of Ovarian Cancer Screening” (UKCTOCS) sono state paragonate due diverse strategie di screening utilizzando il marcatore CA-125: screening basato sull’utilizzo di valori soglia del biomarcatore verso screening basato sulle variazioni dei livelli di CA-125 nel tempo.

    Lo studio ha arruolato 202.638 donne di 50 o più anni di età, di cui 50.640 sono state randomizzate allo screening con “multi modal strategy” (MMS), ossia utilizzando l’algoritmo denominato ROCA (Risk of Ovarian Cancer Algorithm) per attribuire il rischio di presenza di cancro ovarico in base a misurazioni del livello di CA-125 effettuate una volta all’anno, e 46.237 vi si sono effettivamente sottoposte.

    Le donne che in base al ROCA risultavano avere un rischio “normale” venivano invitate ad una nuova misurazione di CA-125 dopo 1 anno; se il rischio risultava “intermedio”, si ripeteva la misurazione del CA-125 dopo 12 settimane. In caso di rischio “elevato”, si effettuavano una nuova misurazione del CA-125 e una ecografia transvaginale dopo 6 settimane. Infine, se il rischio risultava “severo” veniva condotta una indagine chirurgica.

    Tutte le partecipanti sono state seguite tramite i registri nazionali dei tumori e dei decessi, e i risultati della strategia di screening basata sulle variazioni nel tempo del biomarcatore e sul ROCA sono stati paragonati a quelli dello screening basato su valori soglia di CA-125. L’outcome primario di questo studio era il numero di tumori invasivi dell’epitelio ovarico e/o delle tube (iEOC) diagnosticati entro 12 mesi dall’ultimo test di screening effettuato. I tumori venivano classificati come “identificati dallo screening” se diagnosticati da chirurgia e/o biopsia effettuate a seguito del protocollo di screening, e come “non identificati dallo screening” se diagnosticati durante i 12 mesi di intervallo tra una misurazione del CA-125 e l’altra in donne non avviate ad ulteriori accertamenti in seguito allo screening.

    A seguito dei risultati ottenuti, la sensibilità della MMS per la determinazione degli iEOC nello studio è stata dell’ 85.8% e la specificità del 99.8%, verso sensibilità di 41.3%, 48.4% o 66.5% (a seconda del valore soglia di CA-125 adottato) della strategia basata sui valori soglia. Ben il 52.6% delle donne a cui è stato diagnosticato un iEOC in base alla strategia di screening MMS avevano livelli di CA-125 nella norma (≤ 35 U/ml).

    Per ogni tumore individuato con MMS, 4 donne sono state sottoposte a indagini chirurgiche risultate negative; questo numero è inferiore alle 19.5 e 33 indagini chirurgiche effettuate per ogni cancro individuato in studi basati su altre strategie di screening.

    La strategia di screening MMS, in questo che è il più ampio studio finora eseguito sullo screening per il cancro ovarico, ha dunque dimostrato di poter raddoppiare il numero di tumori individuati rispetto alla strategia standard basata sui valori soglia del biomarcatore. Secondo gli autori, i risultati dello studio UKCTOCS supportano l’adozione della strategia MMS basata sull’andamento  del CA-125 per lo screening del cancro ovarico in donne dai 50 anni di età in su.

    Per ulteriori approfondimenti: http://jco.ascopubs.org/content/early/2015/05/08/JCO.2014.59.4945.abstract

     

     

    Terapia ormonale sostitutiva in menopausa: un fattore di rischio?

    Menopausal hormone use and ovarian cancer risk: individual participant meta-analysis of 52 epidemiological studies

    Collaborative Group on Epidemiological Studies of Ovarian Cancer

    Lancet 2015; 385: 1835–42 Published Online February 13, 2015

    Razionale, disegno e obiettivi dello studio

    Lo studio è una metanalisi di dati individuali da 52 studi epidemiologici, e si proponeva di indagare gli effetti della assunzione di terapia ormonale in menopausa sul rischio di sviluppare un cancro ovarico.

    L’analisi principale dello studio ha incluso 12.110 pazienti con cancro ovarico da 17 studi prospettici, allo scopo di minimizzare i bias, mentre le analisi di sensibilità hanno incluso  21.488 pazienti con cancro ovarico seguite nell’ambito del totale dei  52 studi.

    Risultati principali

    6601 pazienti con cancro ovarico arruolate negli studi prospettici (il 55% del totale) avevano fatto uso di terapia ormonale, per una durata mediana di 6 anni.

    Negli studi retrospettivi solo il 29% (2702) delle pazienti avevano fatto uso di terapia ormonale, per una durata mediana di 4 anni.

    Il rischio di cancro ovarico era significativamente maggiore per le utilizzatrici di terapia ormonale rispetto alle non utilizzatrici (RR, relative risk, 1,20; IC 95% 1,15-1,26, p<0,0001 negli studi prospettici. RR 1,14, IC95% 1,10-1,19, p<0,0001 per tutti gli studi).

    Il rischio di cancro ovarico era correlato all’utilizzo recente di terapia ormonale negli studi prospettici (donne che assumevano terapia ormonale al momento della diagnosi: RR 1,41, 95% CI 1,32–1,50; p<0,0001. Donne che avevano assunto terapia ormonale entro i 5 anni precedenti: RR 1,23, 95% CI 1,09–1,37; p=0,0006).

    Il rischio di cancro ovarico diminuiva col passare del tempo dal termine dell’assunzione della terapia ormonale, ma rimaneva significativamente più alto anche dopo oltre 5 anni per le donne che l’avevano assunta per almeno 5 anni (durata mediana 9 anni, RR 1,10, 95% CI 1,01–1,20; p=0,02).

    Nelle utilizzatrici recenti, il rischio era simile sia per l’assunzione di terapia a base di soli estrogeni che per le combinazioni di estrogeni e progestinici.

    Nei 15 studi in cui erano disponibili dati istologici, risultava più elevato il rischio di sviluppare cancro ovarico epiteliale di tipo sieroso o endometrioide.

    Conclusioni degli autori

    La forza dell’analisi principale, condotta sugli studi prospettici, è che l’arruolamento delle pazienti e la raccolta dei dati sull’utilizzo delle terapie ormonali sono avvenuti prima di sapere se le donne avrebbero sviluppato un cancro ovarico; la robustezza dei dati è stata confermata dalle analisi di sensibilità effettuate.

    L’esistenza di un nesso causale tra l’assunzione di terapia ormonale e il rischio di sviluppare cancro ovarico è suggerito sia dal fatto che il rischio è massimo durante l’assunzione della terapia per poi diminuire nel tempo, sia dal diverso rischio associato a diversi tipi tumorali.

    Commento

    Misrepresentation of the risk of ovarian cancer among women using menopausal hormones. Spurious findings in a meta-analysis

    Samuel Shapiro, John C. Stevenson, Alfred O. Mueck, Rod Baber Maturitas 81 (2015) 323–326

    Gli Autori di questo articolo di commento allo lavoro precedentemente presentato sollevano alcuni dubbi, e in particolare:

    Il 49,7% dei casi di tumore ovarico (6022/12110) deriva da 1 unico studio, i cui risultati quindi guidano quelli dell’intera analisi.

    È possibile che la presenza di un tumore ovarico non ancora diagnosticato abbia causato l’uso di terapia ormonale, e non l’inverso, poiché alcuni sintomi del cancro ovarico sono sovrapponibili ai disturbi della menopausa.

    Per il 73.3% delle donne arruolate negli studi non erano disponibili dati su isterectomie e ooforectomie, per cui non era possibile calcolare il numero corretto di pazienti a rischio.

    Le utilizzatrici di terapia ormonale si sottopongono più frequentemente a visite ginecologiche, quindi hanno maggiore probabilità di avere una diagnosi di cancro ovarico, o di averla prima, rispetto alle non utilizzatrici.

    La proporzione di pazienti perse al follow-up è presumibilmente più elevata tra quelle che non hanno sviluppato cancro ovarico rispetto a quelle che si sono ammalate.

    I diversi RR associati a diversi tipi istologici non indicano necessariamente un rapporto di causalità.

    In presenza di un rapporto causale ci si attende una correlazione con dose e durata dell’esposizione alla terapia ormonale, mal’associazione con la dose non è stata calcolata e il RR per esposizioni <5 anni o > 5 anni è rispettivamente 1,43 e 1,37.

    La conclusione degli Autori è che i dati presentati nell’articolo del Collaborative Group on Epidemiological Studies of Ovarian Cancer non consentano di stabilire un nesso di causalità tra terapia ormonale in menopausa e rischio di cancro ovarico, e che siano ingiustificatamente allarmisti.

    Per ulteriore approfondimento:

    http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25684585

    http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25891501

     

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